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La visita del ministro delle Imprese Adolfo Urso allo stabilimento Beko di viale Toselli è stata accompagnata da parole rassicuranti: “entro il 2026 lavoro sicuro e stabile”. Una promessa forte, utile a dare fiducia a chi da anni vive nella precarietà della cassa integrazione. Ma se si guarda oltre l’enfasi dell’annuncio, la sostanza appare ancora fragile.
Invitalia ha acquistato l’immobile, ed è certamente un passaggio positivo: lo Stato entra in campo per preservare un sito produttivo importante per Siena e per la sua storia industriale. Tuttavia, l’acquisto non è di per sé una soluzione. Senza un partner industriale solido, capace di rilanciare la produzione, gli operai rischiano di restare sospesi ancora a lungo.
Il ministro ha parlato di energie rinnovabili e incentivi come leve di attrazione per nuovi investitori. Un’opportunità reale, ma che da sola non garantisce occupazione qualificata e continuativa: servono filiere, tecnologie, accordi con imprese in grado di radicarsi stabilmente sul territorio. Al momento, questi elementi mancano.
Urso ha anche aperto all’idea che gli ampi spazi di viale Toselli possano ospitare più attività produttive tra loro compatibili, un “polo” piuttosto che una monocoltura industriale. È un approccio che può dare diversificazione e ridurre i rischi, ma allo stesso tempo suona come una formula generica, utile a guadagnare tempo in assenza di un progetto definito.
Dietro le metafore calcistiche del ministro (“siamo in vantaggio nel primo tempo”) resta un nodo cruciale: i lavoratori chiedono certezze immediate, non prospettive indefinite. La priorità deve essere un accordo chiaro sugli insediamenti, sui tempi e sul numero di posti garantiti, non soltanto annunci di principio.
La città e il territorio non possono più permettersi di restare appesi a slogan. Serve una pianificazione seria, condivisa con istituzioni locali e parti sociali, capace di coniugare rilancio industriale, formazione dei giovani e transizione ecologica. Solo così la promessa di Urso potrà trasformarsi in realtà.
Altrimenti, quella del 2026 rischia di essere soltanto una data buona per i titoli dei giornali, non per le buste paga dei lavoratori.