Di sé Benedetto Croce disse di sentirsi non un filius loci, da abruzzese di nascita e napoletano di elezione, quanto un filius temporis e «storicista assoluto» quale si autodefinì da allievo di Antonio Labriola e prosecutore o anzi inventore della linea che muove da Vico e, via Francesco De Sanctis, giunge direttamente a lui. Fu per almeno mezzo secolo il catarifrangente della società italiana e un grande atleta della cultura come pure fu chiamato, l’autodidatta che da erudito di storia patria (la prima edizione del suo esordio, I teatri di Napoli, risale al 1891, lui venticinquenne) divenne filosofo firmando nel 1902 una rivoluzionaria Estetica, quindi un critico letterario con il ciclo della Letteratura dell’Italia unita (1914-’40) infine uno storico a partire da Storia d’Italia dal 1871 al 1928 (’28). Ma questa è solo una frazione ovvero la sezione aurea di un’opera sterminata, la forestazione sviluppatasi intorno all’editore Laterza di Bari che seppe assecondarne quella che presto si sarebbe rivelata, alla lettera, una vistosa egemonia e intanto alimentata a cadenza bimestrale dal 1902, per quarantadue anni, da «La critica», rivista integralmente autogestita salvo l’apporto nel primo ventennio del filosofo Giovanni Gentile, l’amico-allievo prediletto con il tempo divenuto suo nemico mortale.
Per quantità del lascito e qualità dell’ipoteca, tale è la presenza di Croce nella cultura italiana del pieno Novecento che Gramsci, nei Quaderni del carcere, può parlarne come di un papa laico, «l’ultimo uomo del Rinascimento che esprime esigenze e rapporti internazionali e cosmopoliti»: tant’è che, morto Croce nel ’52, quasi per contrappasso la cultura italiana successiva ne ha severamente ridimensionata la figura, specie il rilievo di filosofo, rimarcandone l’umanesimo certo capiente ma ancora di accezione tradizionale, la sostanziale incomprensione della letteratura contemporanea, la aperta ostilità alle scienze matematiche della natura da lui retrocesse a utilità strumentali, infine i limiti ideologici e classisti dell’azione politica di colui che pure aveva redatto il Manifesto degli intellettuali antifascisti (1° maggio 1925) e sotto il regime, pur asserragliato fra i suoi libri in Palazzo Filomarino, era rimasto il più indiscusso fra gli oppositori di Benito Mussolini. Persino dove l’opera aveva maggiormente inciso (e del critico letterario Sebastiano Timpanaro aveva infatti lodato – in una voce monografia dell’Enciclopedia Europea, ’77 – la «funzione di dissoluzione di decrepite categorie retoriche»), persino dove meglio sembrava resistere il firmatario, per esempio, dei saggi celeberrimi su Ariosto o su Goethe, veniva colpito fra gli anni cinquanta e settanta da un ritorno delle discipline filologiche e storico-linguistiche che (pur essendo egli un filologo provetto e un linguista onorario, ci dice la versione crociana del Pentamerone del Basile, ’24) egli aveva ridimensionato a metodiche ausiliarie.
L’età dello strutturalismo sembrava da una parte averlo seppellito ma dall’altra, e di riflesso, favorito uno sguardo più limpido e smagato, finalmente, su una bibliografia che nella Edizione Nazionale in uscita da Bibliopolis oggi occupa già trenta volumi sugli ottanta previsti, cui si debbono aggiungere le circa 6.000 pagine dei Taccuini di lavoro, databili fra il 1906 e il 1949, e il vastissimo pelago dei carteggi che contano qualcosa come 100.000 lettere.
Da tempo, dunque, per la nostra cultura Croce è proprio questo, cioè non tanto l’eminenza intellettuale del pieno Novecento quanto uno scrittore, un grande scrittore che proprio come tale da un paio di decenni Adelphi viene meritoriamente proponendo e di cui ancora Timpanaro loda la «cristallina chiarezza di una prosa veramente classica». Si annuncia perciò utilissima a una simile fase della ricezione la prima tranche biografica del lavoro di Emanuele Cutinelli-Rendina, Benedetto Croce Una vita per la nuova Italia, vol. I Genesi di una vocazione civile 1866-1918 (Aragno «Biblioteca», pp. XXV+742, € 50,00), che si segnala sia per la accuratezza dello spoglio documentale sia per la misura interpretativa ben equidistante fra l’anti-crocianesimo di maniera e l’intento invece riparatorio, non meno ideologico, che animava recenti biografi di parte liberale.
Talmente onerosa è la bibliografia d’avvio, primaria come secondaria, che Cutinelli-Rendina sceglie di silenziare l’imponente letteratura su di lui, mantenendone gli apporti sottotraccia, e di dare viceversa la parola a Benedetto Croce in persona. Non si tratta beninteso di un credito incondizionato alla parola scritta del filosofo né tanto meno di un Croce par-lui-même ma probabilmente dell’unico modo per scampare al movimento erratico del leggere/scrivere che per Croce tendenzialmente coincideva con la vita stessa e così mantenere coesa, da parte del biografo, una totalità dinamica di enormi dimensioni. La quale, per attingere la forma più organica del saggio e del trattato, muove sempre dall’umile atto della recensione, un genere erroneamente ritenuto minore: «L’uomo di studio sa – scrive in Critica storica e critica estetica, 1907 – che una recensione ben condotta vale meglio di una dissertazione o di un libro di grosse pretese e di poco costrutto». Qui di particolare precisione è l’analisi del contesto familiare e dei contraccolpi esistenziali al terremoto di Casamicciola (luglio 1883) dove morirono accanto a lui padre, madre e sorella: mentre delinea le figure vicarie (lo zio Silvio Spaventa, lo stesso Labriola) il biografo individua l’origine di un carattere in effetti vulnerabile, soggetto a frequenti crisi depressive e fantasie suicidarie, indotto a proteggersi con la disciplina quotidiana del lavoro nonché a medicarsi, se così si può dire, con la presenza sororale di quelle che furono le due donne della sua vita, la moglie Adele Rossi che sposò nel ’14 avendone cinque figli e prima ancora Angela Zampanelli con cui convisse fra il 1893 e il 1913. (In proposito, Gramsci scrive nei Quaderni che una simile e per l’epoca scandalosa convivenza ne impedì la nomina a senatore che infatti avvenne solo dopo la morte di Angela, «quando il Croce era ridiventato per Giolitti una persona rispettabile»: Gramsci non cita alcuna fonte ma Cutinelli-Rendina non ne fa menzione).
Non meno delineati, nella biografia, i rapporti con Giovanni Gentile e Giovanni Laterza. Del primo è filo conduttore prima un massiccio epistolario, quindi una fase di latenza, quando il filosofo neoidealista da Napoli si trasferisce a Palermo, e poi la definitiva rottura che negli anni cui giunge questo primo volume può dirsi già potenziale: chiaro è in retrospettiva il fatto che Gentile, più filosofo in senso professionale, arrivi a un sistema di perfezione astrattamente tautologica nello stesso momento in cui il maestro (spirito «critico», se mai ce ne furono) sente il condizionamento della realtà concreta e – si è appunto sulla soglia della Grande guerra – di vicende storiche senza precedenti. D’altronde Croce è un intellettuale capace, nonostante sostenga il contrario, di organizzare e di mobilitare la cultura, ed è colui che induce a trasformare una modesta cartolibreria pugliese nella massima intrapresa editoriale del Mezzogiorno e Laterza in un editore la cui collana degli «Scrittori d’Italia» ambisce al prestigio della Bibliotheca Teubneriana o delle Belles Lettres. Questo era per lui, uomo laicissimo, anche l’unico modo di rivolgersi a Dio, o quel Dio che è la storia.
Le occasioni di un autobiografo trascendente: «Soliloquio» di Benedetto Croce, a cura di Giuseppe Galasso, da Adelphi
L’immagine distaccata, olimpica, che Benedetto Croce ha inteso dare di sé specialmente negli ultimi anni di vita nulla toglie al fatto che la sua produzione ha una costante impronta autobiografica, per quanto ciò possa sembrare un paradosso. Nel suo caso si tratta per lo più di un autobiografismo trascendentale perché anche critica e filosofia (come voleva riguardo alla poesia il suo Goethe) erano pur sempre un atto di vita e di critica in atto, muovendo ogni volta da una determinata «occasione». Ciò non toglie nemmeno che Croce sulla soglia dei suoi cinquant’anni e della entrata in guerra dell’Italia abbia steso currenti calamo, in magnifica prosa e in soli tre giorni (aprile 1915) quel Contributo alla critica di me stesso che è senz’altro annoverabile fra i suoi capolavori. Non un libro di memoria effusiva e nemmeno di ricordi puntuali ma piuttosto un atto critico e selettivo, qualcosa a metà fra un bilancio e il Bildungsroman di un giovane e benestante autodidatta che rimane orfano, viene indotto a cercarsi maestri, amici, e infine ad autogenerarsi in quanto studioso, scrittore, filosofo.
Muove necessariamente dai paragrafi iniziali del Contributo un prezioso libretto, Soliloquio e altre pagine autobiografiche (Adelphi «Piccola Biblioteca», pp. 123, € 12,00), che un benemerito degli studi crociani, Giuseppe Galasso, riuscì a mettere insieme e ora esce con una limpida nota di Piero Craveri. Vi si assommano una ventina di testi raccordati dall’interno e secondo una datazione che dall’aprile del 1915 arriva al febbraio del 1951 (quasi alla vigilia della morte di Croce, avvenuta il 20 novembre del ’52), scritture di taglio e destinazione differenti che vanno dalla descrizione della veduta di Napoli in Palazzo Filomarino al testo in clausola alla Grande guerra (due pagine appena, severe e del tutto antiretoriche), dalla cronaca dell’aggressione subita dai fascisti in casa sua il 1° novembre 1926 al carteggio intercorso con l’amatissimo Thomas Mann cui è dedicata la Storia d’Europa nel secolo decimono (’32), dal bilancio del regime alla caratterizzazione di Benito Mussolini che ha pochi eguali in letteratura e nella sua brevitas pungente (si tratta di una veloce annotazione nei Taccuini di lavoro): merita un posto tuttavia fra le requisitorie di Eros e Priapo di Gadda, Tre imperi… mancati di Palazzeschi e certe Scorciatoie sabiane.
È il 2 dicembre del ’43 quando a Benedetto Croce, che dopo un iniziale consenso era stato il demiurgo degli antifascisti, torna in mente, pensando alla parabola del Duce, la pagina di Giovanni Villani dove si riferisce che un astuto demagogo, a chi gli rinfacciava di avere trascinato il suo popolo al disastro di Montaperti, pare rispondesse: E voi perché mi avete creduto?