di Stefano Folli
Ci fu un tempo, tanti anni fa, in cui Silvio Berlusconi si gloriava di aver posto fine alla guerra fredda e di aver convinto il presidente Usa e quello russo, Bush jr. e Putin, a darsi la mano all’aeroporto di Pratica di Mare. Ora, al netto delle palesi esagerazioni, quell’incontro si svolse davvero in piena era berlusconiana. Il ministro degli Esteri, Tajani, la cui posizione nel governo non è invidiata da nessuno, ha tutto il diritto di rievocarlo. Tuttavia sarebbe opportuno che evitasse di confondere le idee agli italiani. Quello “spirito”, ammesso che sia mai esistito, oggi è del tutto evaporato ed è inutile alimentare illusioni al riguardo. Il mondo è cambiato e la guerra ai confini orientali dell’Europa è una tragedia atroce a cui si deve guardare con il rispetto dovuto alle vittime di un’aggressione quale non si vedeva da ottant’anni.
Viceversa, un anziano signore che fondò il centrodestra trent’anni fa ritiene oggi di ritagliarsi uno spicchio di palcoscenico con alcune frasi a effetto concepite allo scopo di compiacere il suo amico di sempre, Vladimir Putin. Confidando nell’inevitabile rimbalzo mediatico, pur ottenuto al prezzo di un certo discredito rovesciato sul proprio paese. Non c’entra nulla Pratica di Mare e ancor meno lo slancio “pacifista”. C’entra invece l’astio di chi si sente escluso dalle decisioni che contano e ammicca all’unico personaggio internazionale che ancora intrattiene con lui una relazione: appunto il presidente russo.
Questa almeno è la parte della storia che riguarda l’egocentrismo, l’orgoglio, soprattutto il cinismo di un uomo che per un paio di decenni ha dominato la scena politica e non si rassegna al declino ormai totale.
C’è tuttavia una seconda parte, tutta a uso interno. Berlusconi ha ancora la capacità di leggere le situazioni con proverbiale rapidità. Da settimane ha colto che la deriva di Forza Italia, o di quel che ne resta, conduce in una certa misura verso Fratelli d’Italia. O meglio, verso quel particolare fenomeno politico che possiamo definire “melonismo”. La giovane premier, un passo alla volta, sta chiudendo tutti gli spazi di manovra del partito berlusconiano. Non tanto o non ancora sulle questioni domestiche, dal bonus edilizio alla scuola ai temi fiscali e altro. Ma senza dubbio sulla politica estera, dal rapporto con Washington a quello più controverso con l’Unione. È in corso una sostituzione di ruoli.
Giorgia Meloni si è costruita un’agenda europea e agisce con il suo stile, seguendo le sue strategie. Fa quello che un tempo faceva Berlusconi, interloquisce con maggiore o minore successo con le varie capitali. Ha imposto una centralità sottratta senza troppa fatica all’area della vecchia Forza Italia. Lo si vede nella relazione con i Popolari tedeschi, tentati di aprirle un credito che per tanti anni è stato riservato a Berlusconi.
Ecco ciò che rende furioso l’uomo di Arcore.
La chiara impressione che la scena sia ormai occupata da un vero successore nel campo del centrodestra. Un successore imposto dalle circostanze, anzi dalla battaglia elettorale, e non da lui designato. Comunque vadano le cose, se pure il “melonismo” dovesse fallire, l’orologio non tornerà più indietro. L’epoca di Berlusconi stavolta è davvero conclusa e lui ne è consapevole.
Avrebbe voluto almeno una compartecipazione nella gestione della politica estera. Non l’ha ottenuta, in base al principio che il potere è indivisibile. Tenta di logorare la presidente del Consiglio, di metterla in difficoltà con le sue frasi estemporanee, ma rivela solo una crescente debolezza. Non è in grado di agire contro il governo, tantomeno dopo la difesa che il Cremlino ha riservato all’amico italiano (l’ultima cosa di cui si sentiva il bisogno). Può solo illudersi di sfibrarlo, ma la verità è che il “melonismo” è visto come la zattera di salvataggio da una parte almeno dei naufraghi di Forza Italia.