Città polverizzate. Il tempo ritrovato di terre insanguinate, con un Putin che raccoglie la duplice eredità di Stalin e di Hitler. E tutto questo per cosa? Un paesino conquistato qui. Un paesino riconquistato lì. Un’unità motorizzata che, per il tempo di una foto, arriva per appendere una bandiera su un campanile e subito, in qualche caso, se la dà a gambe.

Mesi di combattimenti terribili a Bakhmut e a Casiv Jar (due battaglie di cui ho scritto) o ad Andriivka (magnifico film di Mstyslav Chernov) per prendere minuscole città di cui restano soltanto cumuli di macerie.

il dossier

 

Sedici mesi di un’offensiva catastrofica per cercare di occupare la città di Pokrovsk, che conosco bene e dove ho effettuato delle riprese e che, in tempo di pace, è un borgo delle dimensioni di Melun o di Vincennes.

Vengono in mente le parole di Norman Mailer quando scrive ne “Il nudo e il morto”: «Morivano per colline di cui nessuno conosceva il nome, per obiettivi che nessuno comprendeva».

Viene in mente, meglio ancora, il capolavoro di Erich Maria Remarque, “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, cupa bibbia dell’assurdità della guerra e del «tutto questo solo per questo», della macchina che distrugge per nulla: «La stessa terra sventrata che conquistiamo, perdiamo e riconquistiamo di nuovo – resta il fango, restano i morti».

Per chi ha visto da vicino questo obbrobrio, constatarlo è intollerabile.

Di fronte a questa follia che va avanti soltanto per volontà di Putin, gli ucraini si comportano in modo ammirevole. Combattenti coraggiosi. Capi civili e militari valorosi. Resistenza senza uguali di una popolazione perseguitata, sfinita, decimata, ma in piedi.

A farmi cambiare opinione non sarà certo il recente scandalo per corruzione nel settore energetico: licenziamento di due ministri; destituzione inesorabile di uno stretto collaboratore del presidente; due agenzie anticorruzione che la società civile reputa tesori nazionali e che, in piena guerra, portano avanti un lavoro d’indagine implacabile, che dire di meglio?

 

 

Il problema, piuttosto, sono gli alleati.

Lo dico, lo ripeto e lo faccio vedere, film dopo film, da quattro anni a questa parte: tutti, fin dal primo giorno, hanno dato prova di un ritardo sistematico: elmetti quando servivano lanciamissili Javelin; Javelin quando serviva l’artiglieria; obici quando la guerra di trincea cedeva il passo alla guerra nei cieli; difese antiaeree nel momento in cui servivano missili Scalp o Storm Shadow di lunga gittata; carri armati quando occorrevano aerei; aerei dopo che il nemico aveva adattato le sue difese antiaeree…

L’elenco è lungo. Sempre le armi giuste, ma sempre con sei mesi di ritardo. Torna alla memoria la frase terribile del romanziere jugoslavo Ivo Andric che mi venne in mente trent’anni fa, durante l’assedio di Sarajevo: «Le potenze non danno mai abbastanza per salvarsi, ma sempre abbastanza per prolungare l’agonia».

Nell’Ucraina odierna, come nella Bosnia di ieri, il diavolo della Storia ha dosato sapientemente i suoi aiuti per permettere al Paese di resistere, ma non di vincere.

La situazione sta per cambiare? Forse.

Da un lato c’è un “nuovo piano di pace” che sembra essere stato messo a punto in tutta fretta dalla coppia Witkoff/Dmitriev e che, se l’informazione è esatta, sarebbe una catastrofe strategica e morale, equiparabile a un’inaccettabile capitolazione dell’Ucraina: «Tutto questo solo per questo, alla massima potenza!».

Dall’altro lato, vi sono le recenti esercitazioni della Nato, dove si sono viste unità di combattenti prendere finalmente sul serio l’ipotesi di un conflitto che la Russia non nasconde di voler estendere, non appena potrà, al resto dell’Europa.

E poi c’è l’accordo firmato dal presidente Macron che prevede la consegna entro dieci anni di cento aerei caccia Rafale, seicento bombe guidate Aasm a lungo raggio e otto batterie di missili Samp/T dello stesso tipo dei Patriot americani.

 

 

Ma ce n’è bisogno adesso.

La priorità assoluta, da adesso in poi, è dar seguito alla richiesta che il presidente Zelensky formula dal primo giorno, nei confronti della quale siamo per il momento più o meno tutti sordi e da cui, tuttavia, dipendono le sorti della guerra: «Istituire una no-fly-zone, chiudere i cieli, impedire che le bombe, i missili, i droni russi prendano di mira i nostri civili, riducano in polvere le nostre città, distruggano le nostre infrastrutture… E a quel punto vinceremo».

Esistono tre modi per riuscirci.

Il primo è che la Francia faccia scuola e che si consegnino all’Ucraina batterie di missili tipo Patriot per proteggere tutte le grandi città. Secondo, che ci si accerti, in Francia come altrove, che per le armi consegnate non vi sia il divieto di colpire la Russia in profondità. E, terzo, che l’Ucraina sia integrata alla rete di radar, dispositivi di controllo e altri satelliti che permettono agli eserciti della Nato non soltanto di offuscare i cieli, ma anche di vedere i missili in arrivo.

Nel diritto internazionale, nessuna di queste tre azioni implicherà una belligeranza grave.

Nel complesso, però, queste tre azioni sono ciò che manca all’Ucraina per trasformare in vittoria il vantaggio strategico che, fin d’ora e già adesso, la sua tenacia e il suo eroismo le danno.

Traduzione di Anna Bissanti

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