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6 Aprile 2025Permanenza del Classico Maurizio Bettini aggiunge un ulteriore capitolo alla sua ricerca sul sapere mitico proponendoci un’ardita chiave di lettura «attuale» della disastrosa corsa del figlio del Sole: Arrogante umanità, da Einaudi
Tra le peculiarità dei racconti mitici spicca la loro capacità di offrire un modello interpretativo complesso per orientarsi nel mondo. Rileggiamo con piacere le narrazioni tradizionali sui momenti fondativi dell’origine del cosmo, dell’umanità e degli dèi, attratti dal loro potenziale generativo di cosmologie, antropologie e teologie: un nutrimento essenziale per il pensiero astratto, chiamato a decifrare il senso profondo dell’esistenza. Questa feconda alleanza – riconosciuta da Platone, che seppe intrecciare l’immaginazione mitopoietica con la razionalità filosofica occidentale – resta vitale ancora oggi, purché si superi la sterile contrapposizione tra mythos e logos.
Merita dunque attenzione l’ultima proposta di Maurizio Bettini, la cui preziosa esperienza di ricerca sul sapere mitico dà vita a pubblicazioni in cui il piacere del racconto s’intreccia con affondi teorici negli studi di antropologia storica del mondo antico. Pur dialogando con i classici nel loro contesto originario, Bettini ne coglie le rifrazioni nel prisma della società contemporanea: Arrogante umanità Miti classici e riscaldamento globale (Einaudi «Vele», pp. VI-131, € 13,00) ci restituisce così un mito molto noto in una chiave di lettura ardita e inattesa. La corsa di Fetonte sul carro del Sole e la sua caduta rovinosa, quando non riesce a mantenere i focosi destrieri del padre lungo il percorso abituale e Giove lo folgora per scongiurare un incendio cosmico, equivalgono a «un cataclisma che – alla maniera di uno smisurato specchio – è capace di gettare la sua cupa immagine anche sulla presente condizione del nostro pianeta» (p. 3). Inteso in questi termini, il racconto prende avvio dal mosaico delle testimonianze greche, purtroppo molto lacunoso, per approdare alla versione di Ovidio, la più completa e influente trasmessaci dall’antichità.
La vicenda narrata dalle Metamorfosi (I 750 – II 366) offre lo spunto per scorgere nella catastrofe, innescata dall’ingenua imprudenza di Fetonte ed evitata solo grazie al tempestivo intervento divino, l’esito di un atto di arroganza e superbia, che si lega in modo quasi profetico agli sconsiderati comportamenti con cui l’umanità contemporanea continua a violare l’equilibrio naturale. Non rispettare i limiti di sostenibilità del pianeta significa macchiarsi di una profonda ingiustizia verso beni che non ci appartengono, che dovremmo anzi custodire per tramandarli intatti alle generazioni future. La colpa collettiva di una civiltà troppo fiera della sua tecnologia, priva del doveroso riguardo verso l’ambiente in cui viviamo con le altre specie animali, si può dunque assimilare all’ambizione del mitico figlio del Sole, determinato a chiedere conferma della paternità messa in dubbio dalle parole di scherno di un coetaneo. Bettini descrive i risvolti tipicamente romani della versione di Ovidio, le inflessioni giuridiche del linguaggio usato per negoziare, prima con la madre e poi direttamente con il padre, il suo status di figlio del dio. Un ruolo cruciale è giocato anche dalla posizione strategica del racconto: Ovidio colloca la vicenda di Fetonte – che funge da snodo tra i primi due libri, pur non prevedendo una metamorfosi del protagonista – all’interno di una più ampia sequenza narrativa, dopo la cosmogonia iniziale e un’oscura premonizione di Giove, che sceglie di sterminare la prima stirpe umana con il diluvio universale anziché con il fuoco.
L’alternarsi tra conflagrazione cosmica e diluvio rappresenterebbe uno degli eventi periodici di distruzione e rinascita che, nella storia umana, appaiono correlati a precise responsabilità e a una punizione divina. Bettini, tuttavia, non sovrappone ingenuamente l’ideologia moderna al pensiero antico, ma ricorre a strumenti teorici che, affinando le idee di Lévi-Strauss, mettono in risalto la ‘densità’ e la ‘significatività’ (la Bedeutsamkeit di Hans Blumenberg) del racconto mitico. Esso esprime molto più di quanto una sua riduzione a discorso positivo e verosimile potrebbe comunicare, e conserva un potenziale di senso che, rinnovandosi continuamente, si presta ai contesti più svariati, stimolando la riflessione e spingendo oltre la comprensione.
La significatività latente di un mito così fortunato suggerisce però alcune osservazioni. I tratti caratteriali che rendono Fetonte un personaggio esemplare, riconoscibile attraverso le epoche e i sistemi culturali più diversi, non si riducono in modo univoco all’ambito psicologico della hybris. Il titolo del saggio focalizza l’arroganza come cifra invariante di ogni elaborazione del mito, ma non è questo l’aspetto primario nel mondo greco. Sappiamo quanto basta della trama del perduto Fetonte di Euripide per ravvisare alcuni dei suoi temi prediletti dietro una catastrofe tragica prodotta dalla tyche, non certo dalla hybris umana (ne ho scritto su «Alias D» del 27.08.2023): la paternità distruttiva degli dèi che si uniscono alle mortali, l’incauta promessa del padre divino, la ricerca d’identità di un giovane e l’ominosa contiguità fra rito nuziale e destino di morte.
Nel comparare le differenze narrative tra le due culture, del resto, Bettini marca la distanza che separa la tradizione greca da quella romana, spesso considerate a torto come un insieme omogeneo e indistinto (Il sapere mitico. Un’antropologia del mondo antico, Einaudi 2021). Sorprende, dunque, che un caveat così pertinente non lo orienti anche in questo percorso. L’accostamento di un suggestivo mito di empietà punita, narrato da Callimaco (Inno a Demetra 25-117) e successivamente da Ovidio (Metamorfosi VIII 739-878), si espone alle stesse riserve: per aver sfidato la dea Cerere, abbattendo una quercia sacra, Erisittone viene consumato da una fame insaziabile che alla fine lo spingerà a divorare se stesso (l’autofagia è presente solo in Ovidio, che trasforma una figura patetica in mostro sacrilego). «Cosa ci permette di vedere, oggi, il destino patito da Erisittone? Una umanità bulimica, ingorda, che, per soddisfare i propri insaziabili bisogni, da un lato produce la distruzione dell’ambiente in cui vive, dall’altro provoca la rovina di se stessa» (p. 119).
Fetonte, Erisittone, l’arroganza verso la natura, la deforestazione e il suo impatto sul cambiamento climatico: questi racconti evocano davvero le attuali preoccupazioni sul riscaldamento globale, o piuttosto rivelano l’urgenza di aggiornare il razionalismo di Platone e Lucrezio, che nella vicenda di Fetonte vedevano il ricordo di disastri naturali mascherati dal mito? «Fetonte, che distrugge il pianeta per la propria arroganza» smentirebbe un celebre aneddoto narrato da Platone (Timeo 22 b-d): «cioè che questo tipo di cataclismi appartiene all’ordine della natura, “c’è sempre stato”. No, il racconto del mito dice esattamente il contrario, all’origine del disastro c’è una specifica colpa umana» (p. 63). La nuova lettura risuona con la più vibrante attualità ma, più che confutare Platone o i negazionisti del cambiamento climatico, si concentra nel ridisegnare l’eziologia dei disastri naturali e il travestimento allegorico che ne offre il mito.
Sarebbe però riduttivo non riconoscere la ricchezza di un saggio che, oltre a essere brillante, si distingue per la cura con cui inquadra storicamente la ricezione dei miti. L’avvento del cristianesimo, integrando la cosmogonia biblica e apparentemente legittimando la supremazia umana sulla natura, segna una frattura con il mondo classico, che invece non contempla alcuna gerarchia. Nella visione ideologica antica, natura e ambiente si fondono in un orizzonte religioso inclusivo, diventando canali di comunicazione con il divino. Solo un mutamento di paradigma culturale ha relegato nella sfera della letteratura e della pura finzione racconti che, in origine, erano permeati da scrupoli religiosi e da un autentico senso del sacro (Bettini esplorava i vantaggi di quel quadro mentale in Elogio del politeismo, il Mulino, 2014). Il contrasto tra norme religiose e pratiche reali, con onestà intellettuale, non viene però affatto dissimulato: sui Romani grava la responsabilità storica della deforestazione di vaste aree della penisola e di un’intensa attività mineraria ed estrattiva. In pagine raffinate, in cui l’ermeneutica del mito si mette al servizio della passione civile, la formula della superbia antropocentrica diventa così lo strumento di un pamphlet che, con intelligente provocazione, sollecita le coscienze e invita alla riflessione critica.