Kader Attia, curatore della 12/a Biennale di Berlino (fino al 18 settembre in varie sedi della città) si è chiesto «Senza pretendere che una mostra d’arte possa cambiare il mondo, come si può spostare, riorientare solo leggermente la percezione del mondo? ». Su questo assunto, è una prova riuscita la Biennale intitolata Still Present!, che rinasce sotto la direzione di Attia, il cui lavoro da oltre 20 anni si concentra sulle idee di colonizzazione, imperialismo, eredità della soggezione violenta e fascista imposta da una parte di mondo all’altra. Con lui un team curatoriale di donne e circa 80 tra artiste e artisti provenienti in gran parte da luoghi che sono stati e sono sfruttati, distrutti, condannati a guerre perpetue dalla voracità del capitalismo.

LA BIENNALE RUOTA intorno all’idea di «riparazione», concetto che lavora tenendosi lontano dalla secca della neutralità che farebbe ricadere la produzione di un’opera in una sorta di imitazione del coloniale, piuttosto inteso come processo collettivo che ritrovi le correlazioni, i modi, i fili resistentissimi che hanno tenuto insieme e reso forti tutti i tipi di soprusi, dividendo il mondo in sfruttati dannati e sfruttatori spesso oltreché violenti, ignavi.
La «riparazione» è un difficile processo che coinvolge tutte e tutti, lavorando in modo intersezionale per creare narrazioni e piani simbolici capaci di mettere continuamente in discussione il proprio punto di vista. È la declinazione molteplice di engagement contro ciò che Attia chiama il regime della invisibilità e proprio perché ci si impegna contro questo regime la migliore delle strategie è far vedere, far emergere con prepotenza, mettere di fronte alla visibilità emotiva, tragica, epica, in capo solo all’arte.

LA MOSTRA DIVIDE il tema centrale in capitoli che occupano fisicamente spazi diversi. Al KW – Institute for Contemporary Art è dato Il compito di far emergere le questioni, di far uscire dalla invisibilità i temi e i nodi politici più roventi, all’Hamburger Bahnhof c’è la rappresentazione del conflitto, il suo deflagrare, il farsi orrore. Nelle altre sedi il crimine coloniale planetario entra in una sorta di metodologia visiva che, quasi come nei cicli di affreschi medievali, si assume il ruolo di rendere visibile le strade, le idee, le apocalissi scatenate dal colonialismo vecchio e nuovo, in particolare quello ambientale.
Al KW molte opere decostruiscono e ricostruiscono storie e Storia creando instabili, perturbanti e suggestivi nuovi punti di vista. Tra le molte Ariella Aïsha Azoulay, partendo dalla Storia naturale della distruzione di Sebald, ricostruisce in The Natural History of Rape una storia dello stupro in cui non si relativizza il crimine di genere dentro l’equiparazione di chi lo compie, ma si rende ancor più intollerabile dentro l’assunzione del concetto di «naturalità» del crimine di guerra.

L’INDIANA MAYURI CHARI ricama nel modo appreso dai coloni portoghesi dalla sua famiglia i colloqui tra il corpo femminile e un violento regime patriarcale disegnato dai rigidi principi vittoriani spacciati come valori indigeni tratti da antichi testi religiosi. Jeneen Frei Njootli artista nativa canadese crea un’istallazione spezzata fatta con grandi oggetti tradizionali alterati in cui sovverte la dicotomia natura/cultura per interrogare il regime di proprietà privata come spazio ricreato in modo tossico da chi quelle popolazioni ha distrutto e sottomesso. Mila Turajlic rielabora l’archivio di un regista yugoslavo che tra il ’59 e il ’62, per conto del suo Paese, documentò la guerra di liberazione algerina.
Il lavoro si inserisce in un filone presente nella Biennale e tra i più suggestivi e riusciti, le storie di esseri umani che hanno tracciato presenze, emozioni, drammi e traiettorie seguendo e incrociando guerre coloniali. Come lo straordinario megavideo di Tuan Andrew Nguyen (Hamburger Bahnhof), che ricostruisce lo straziante cammino di soldati senegalesi mandati dai francesi in Indocina a reprimere la rivolta vietnamita. Lì sono nati tra senegalesi e vietnamite amori, figli, sradicamenti, diaspore, silenzi che hanno costruito traumi indicibili che vengono curati dalle generazioni successive tramite il racconto.
Abbas e Abou-Rahme sconvolgono anche la nozione di spazio e di ascolto delle immagini di chi entra nel loro lavoro in cui installazione sonora, delicati filmati e video di telecamere di sorveglianza israeliane narrano la storia di Yousuf, ragazzino palestinese che superò la barriera di separazione per raccogliere l’akoub, pianta prelibata per la cucina palestinese, e fu ucciso dai militari israeliani.
Indimenticabile, all’Akademie der Künste, il détournement immersivo di Yuyan Wang che prende spunto da un’iniziativa del 2018 in Cina dove furono lanciate in orbita tre lune artificiali sopra le principali città di una regione per fornire luce diurna continua. Sempre nella stessa sede Susan Schuppli crea una grande istallazione in cui il concetto forense di «testimone materiale» muta in testimone ecologico in cui è l’ecosistema e il suo complesso sistema di archiviazione a farsi inoppugnabile testimone nel processo al colonialismo. E dichiararlo colpevole.