Nei suoi video ci sono gli echi della pittura occidentale che ha plasmato il nostro immaginario. Miracoli e apparizioni continuano a stupirci Come accade nel percorso allestito al Palazzo Reale di Milano
di Valeria Parrella
Arrivano da due lastre di granito nere, come emergendo da esse, la donna e l’uomo che devono cercare loro stessi, nell’opera del 2013 di Bill ViolaMan searching for Immortality/ Woman searching for Eternity. Arrivano dal nero, dall’origine del mondo e infatti portano ciascuno una torcia, ut fiat lux, affinché sia luce. Sono Adamo ed Eva, sono nudi, ma sono più ancestrali dell’immagine biblica perché non sono due giovinetti appena creati, bensì corpi che rivelano un’età, anziani si diceva una volta, corpi cioè che hanno avuto abbastanza vita perché noi stessi possiamo creder loro, in ciò che fanno. E ciò che fanno è: cercarsi, esplorarsi, guardarsi. Sono belli, nelle forme non più tese della pelle, con i capelli bianchi: di loro ci fidiamo, sono loro, saranno loro a cercare per noi.
Accade questo infatti, al visitatore della personale dedicata all’artista newyorchese (al Palazzo Reale di Milano fino al 25 giugno): che a lasciar cercare lui, Bill Viola, a lasciar cercare lui attraverso gli attori delle sue video istallazioni, ci si comincia a cercare.
Non che non lo si faccia già in tanti ambiti e per multiformi strade, ma la chiave di un artista porta con sé un modo nuovo. Per esempio quella pelle esaminata da quella luce. La donna e l’uomo proiettati in alta definizione sulla pietra si meravigliano a trovarsi le mani, gli arti, a seguire il sentiero delle vene, usano le torce per stupirsi, noi ci stupiamo; lo faremo, pensiamo, lo faremo anche noi, e ora sappiamo che non c’è bisogno dello specchio: bastava il canone. E il canone non è la perfezione estetica ma la consapevolezza dell’indagine. « Ciò che non è pietra, è luce» recita l’esergo da Octavio Paz nel bel catalogo, molto accurato, realizzato in collaborazione Skirà/Arthemisia, con la prefazione di Kira Perov, la curatrice di Viola, che spiega l’origine della sua fascinazione per i video, e lo chiama affettuosamente Bill, ma non è una affettazione, lei può: è anche sua moglie. Questo senso di appartenenza scorre in ogni opera e per tutto l’allestimento.
E transita spesso per il passaggio generazionale, scorre di mano in mano, come suggerisce l’opera Four Hands ( 2001), in cui ci sono le mani di quattro persone: un bambino, un uomo, una donna, una donna anziana. Non c’è bisogno di leggere le didascalie per riconoscerle: le mani prese così da vicino, dettagliate dalla nitidezza dell’immagine, e insufflate del loro stesso movimento, sono come degli sguardi, sono come volti: non hanno nulla di meno. Non è un caso che la lingua dei segni si realizza con le mani: le mani parlano.
E questo polittico parla di come il tempo sia circolare, assomigli a quello dei greci, non lineare come il nostro, gira, non scorre, si ripete, non termina. C’è una certezza che si fa speranza nello scoprire quelle mani usurate e dalle articolazioni meno elastiche che concludono il polittico: perché dall’altra parte si riparte con quelle del nipote. Poi, a leggerle quelle didascalie, ci si commuove proprio, perché nei nomi c’è appunto appartenenza, le mani dei performer sono di Blake Viola, Kira Perov, Bill Viola, Lois Stark.
Le didascalie sono state scritte direttamente da Bill Viola. In una di esse cita direttamente la fonte che lo ispirò: la Visitazione del Pontormo nel video The Greeting( 1995), che all’epoca venne anchepresentato temporaneamente in una sala vicina alla chiesa che custodisce la tela originaria. Il risultato finale dell’opera è identico, mutano le fogge dei vestiti, ci sono calzari invece che piedi nudi, ma la città che si intravede alle spalle della Vergine e delle altre donne è la stessa, anche certe piccole figure sullo sfondo: tornano contemporanee eppure ai nostri occhi antiche.
Quando The Greeting fu esposta alla mostra Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie della maniera a Palazzo Strozzi nel 2014 e in
Bill Viola. Rinascimento elettronico, stesso luogo nel 2017, fu immediatamente comprensibile quel salto di sostanza che rende ai nostri occhi le opere di Viola delle opere di genio.
Torna, in questa personale, ancora comprensibile: « La fascinazione di Bill per il mondo del video risale al 1960 » si legge nella prefazione di Kira Perov, «…rimase affascinato dal bagliore blu del monitor, aveva solo nove anni » . Ma a noi occhi di visitatori italiani arrivano altre fascinazioni, arriva un sentiero fatto di rimandi a opere che conosciamo, sacrifici che fanno parte del nostro immaginario, immagini sacre che ci hanno costruito come cittadini, prima che come amanti d’arte: che hanno preceduto la nostra consapevolezza nei libri e nelle chiese.
Non lo troveremo scritto da nessuna parte se non nella nostra memoria, che la finestra in alto a destra di Catherine’s room ( 2001) è la finestra in alto a destra da cui De Chirico permette di far passare la luce nei suoi quadri, quella che crea l’altrove se dentro c’è un dentro.
In Emergence del 2002 da un altare di marmo comincia a trasbordare dell’acqua, finché, assieme all’acqua, emerge il corpo bianco di un giovane uomo con i capelli lunghi, sale nell’aria in sospensione poi si abbandona tra le braccia delle donne che assistevano al “ miracolo”. Sono gli stessi colori, le stesse composizioni formali delle Deposizioni di Raffaello e Tintoretto; la Fire Woman del 2005, allestita in una sala del Palazzo Reale in cui c’è uno specchio, dunque il sacrificio del fuoco accade ed è riflesso, è riflesso di altri sacrifici e allegorie.
Solo che sta accadendo in quel momento, non assistiamo a ciò che conosciamo ma ci sorprendiamo, continuiamo a sorprenderci, per quello che accade.