L’INTERVISTA
dal nostro inviato
Luca Valtorta
VENEZIA Un uomo irrompe all’improvviso e inizia a gridare in inglese: «Blast open the gates to the kingdom came! Whoops, what happened to everyone? (Fate esplodere i cancelli del regno! Ops, che fine hanno fatto tutti?)». Dopo se la prende con un altro malcapitato: «Planted a seed, grew into a gun (Dal seme che ho piantato è nata una pistola)». E poi, apparentemente più rilassato, canta una strana nenia: «Dum-de — dum dum dum dumb».
Ricomincia e, con voce tonante, scandisce: «We are the dinosaur. We don’t live here anymore. We got what we were asking for». Siamo all’Arsenale di Venezia, Teatro alle Tese, un posto incantato, pallini di luce bianca che roteano intorno a noi: è uno spettacolo ditalking poetry e lui è l’ineffabile, straordinario Bob Holman, di fatto l’ultimo poeta beat.
A portarlo qui è stato un vecchio amico, Willem Dafoe, tra i fondatori del Wooster Group e direttore della Biennale Teatro, il cui tema èTheatre is Body / Body is Poetry. Questa edizione, appena conclusa, si intreccia con quella del 1975 diretta da Luca Ronconi dove il Living Theatre di Judith Malina e Julian Beck, l’Odin Teatret di Eugenio Barba, Jerzy Grotowski e il Café La MaMa portarono «una radicale ridefinizione del linguaggio teatrale aprendolo al corpo, al rito, alla cultura intesa come modello raffinato di esercitare la vita», spiega Dafoe nelle note introduttive.
E ancora: «Il teatro è una forma di conoscenza in cui la presenza dell’attore dialoga con quella delpubblico». Ovvero ciò a cui stiamo assistendo. Ma non è solo un omaggio a un mondo lontano nel tempo e che non c’è più: il finale della performance di Holman è un concerto techno a 180 bpm di Industria Indipendente, con il sound design di Filippo Brancadoro, sotto la scritta al neon Your silence will not protect you. E sull’isola del Lazzaretto Vecchio si può incontrare la potenza misterica, cristologica e crudele della Socìetas di Romeo Castellucci con I mangiatori di patate, «poesia che dice la potenza del non dire».
Il giorno successivo seguiamo Holman in un’altra serie di performance per le strade di una Venezia torrida dove i turisti, alla ricerca diselfie opportunity sul ponte di Rialto, vengono importunati all’allarmato grido diWe got aliens in the White House!. Un collasso totale dei confini tra realtà e allucinazionedove l’atto poetico riesce ancora a sfidare la follia che si stringe sempre più intorno a noi. Alla fine siamo distrutti. Incontriamo Holman anche se, per molto tempo, il luogo e il momento dell’intervista rimangono sospesi nell’aria come la sua poesia.
Quali sono le sue influenze?
«La mia formazione intreccia la linea dei beat con quella della New York School, il Dada, il Surrealismo e la Commedia dell’arte. Dario Fo è un altro maestro. Howl di Ginsberg è stata una poesia fondamentale, tenevo una copia di quel libro nella tasca posteriore. Kenneth Koch della New York School fu il mio insegnante alla Columbia: il primo giorno di lezione entrò abbracciando sé stesso e disse “oh, Walt, ti amo”. Non avevo mai visto un insegnante comportarsi così, né sentito qualcuno chiamare Walt Whitman per nome. Si aprì un mondo nuovo».
Ha conosciuto i beat di persona?
«No, Kerouac era già morto quando arrivai a New York. Sono arrivato un mese dopo la morte di Frank O’Hara. Ma ho conosciuto Allen Ginsberg, Gregory Corso e altri».
Cosa pensa del Nobel a Bob Dylan e del rapporto tra canzone e poesia? È stato giusto darglielo?
«Certo. La stessa cosa è successa con Dario Fo: la poesia è nata orale, per migliaia di anni nessuno la scriveva. Passava da persona a persona. La scrittura è solo un modo per trasmettere la poesia senza che il poeta sia presente».
Come ha scoperto la poesia?
«Per me imparare a leggere è stato il primo miracolo. Mia madre mi ha insegnato molto presto. Mio padre si suicidò quando avevo due anni, quindi è stata lei il mio vero genitore. Sapeva che ero un tipo da linguaggio. Quando leggevamo insieme, muoveva il dito sul testo emi sembrava che le parole mi parlassero: era la sua voce che comunicava con la mia. Ancora oggi sento una voce che viene dalle pagine. Il significato è nel suono».
Che cos’è la poesia?
«Difficile. C’è musicalità nella poesia, come nel canto gregoriano.
Quando leggo ad alta voce mi piace lasciare che le parole vadano dove vogliono. Spesso dico ai miei studenti: se durante una lettura ti dimentichi qualche parola, forse non doveva esserci. Esibirsi è anche editare. Esibirsi è scrivere».
Ha paura della situazione politica attuale negli Stati Uniti?
«La tirannia funziona con la paura.
Oggi è difficile scrivere contro Trump: la repressione è più subdola e pericolosa di quella degli anni ’60. Ma la poesia e la musica sono modi per esorcizzare il tiranno. Il giorno dell’insediamentoabbiamo organizzato una anti-inaugurazione a St. Mark’s Church, leggendo The Descent of Alettedi Alice Notley, un poema epico dove la protagonista scende negli inferi per uccidere il tiranno.
Eravamo 500 persone che facevano arte, invece di essere solo contro qualcosa. Era il nostro modo di esorcizzare il tiranno».
Perché i giovani non partecipano o lo fanno in pochi?
«È il digitale: quando vedi un gruppo di millennial seduti a un tavolo che si scrivono messaggi invece di parlare, c’è una distanza dall’umanità. Vivono in un mondo di fake news e immagini attraverso uno schermo. Trump è un genio nel comunicare in maiuscolo, con errori di ortografia, e questa audacia attrae. I democratici non sanno come comunicare. Questi ragazzi sono nati col cellulare in mano e bisogna trovare nuovi modi per coinvolgerli».
Ma la poesia ha un futuro?
«La poesia, la musica e la cultura sono l’unica speranza. Dobbiamo continuare a creare, a dare voce, a resistere con l’arte. Anche se è una lotta difficile, è l’unica strada. I libri stanno resistendo al digitale, il vinile sta tornando, persino le cassette. La cultura ha ancora valore. So che dobbiamo continuare a fare poesia».
Nonostante la guerra?
«Le guerre sono oscene e inutili.
Conosco Serhij Žadan, un grande poeta ucraino: va a bere una birra e un missile gli passa davanti. Vedere come Zelensky è stato trattato alla Casa Bianca è terribile. Anche la situazione in Israele e Palestina è drammatica. Netanyahu è malvagio come Putin, come Trump. Sono alieni alla Casa Bianca».