Lucidamente introdotta e meticolosamente curata da Alberto Melloni, questa nuova versione italiana delle Poesie di Dietrich Bonhoeffer (Marietti 1820, pp. 105, euro 10) si prefigge di rendere compiutamente la musicalità e la ricchezza lessicale dei testi originali.
Testi che, composti tra il giugno e il dicembre del 1944 quando l’autore era recluso nel carcere berlinese di Tegel, stanno a testimoniare come egli, dopo essersi espresso attraverso saggi e missive, abbia sentito la necessità di utilizzare il denso linguaggio dei versi.

Di sostanziale rilievo, in proposito, è quanto il teologo ha scritto all’amico fraterno Eberhard Bethge il 5 giugno del ’44: «mi sembra di essere un ragazzo sciocco, se continuo a nasconderti che di tanto in tanto mi lascio andare a tentativi poetici. Finora l’ho nascosto a tutti… Sicché oggi te ne mando un saggio». La lirica in questione, che si intitola Passato, è la prima di un corpus costituito da dieci carmi composti da un intellettuale che mostra di essere stato profondamente influenzato da qualche ricordo e alcune letture: dai Lieder di Paul Gerhardt (1607-1676), dai Salmi e dall’Apocalisse.

MELLONI pone l’accento sul primato del testo, una preminenza che si concretizza nella ricerca sulla parola e sulla lingua allo scopo di raggiungere un’essenzialità non diversa da quella che caratterizzava le riflessioni di Bonhoeffer: tra l’essenzialità cercata nella meditazione, nelle lettere e nella produzione poetica non c’è dunque alcuna discontinuità. Va osservato inoltre come i suoi versi debbano essere collocati nel buio della prigionia da cui vengono, nella sofferenza patita da chi teme per la propria vita e attende angosciato, sperando che si apra forse uno spiraglio, l’evolversi degli eventi.

Malgrado tutto vi risalta però – motivo fondamentale – la presenza di Dio, entità in grado di controbilanciare ogni nefandezza della storia e dell’esistenza. Scrive al riguardo il teologo in Ventura e sventura: «La ventura è piena di spavento,/ la sventura piena di dolcezza./ Indivise sembrano venire/ l’una e l’altra dall’eterno». E poi conclude: «È questa l’ora della fedeltà,/ l’ora della madre e dell’amata,/ l’ora dell’amico e del fratello./ Fedeltà che rischiara ogni sventura/ e lieve la ricopre/ di clemente/ splendore ultraterreno».

IL CANTO DI BONHOEFFER appare dunque permeato da Dio. E non è forse un caso che – alla luce della propria condizione – egli abbia composto due liriche dedicate ad altrettante figure bibliche quali Mosè e Giona. La morte di Mosè sembra pertanto rispecchiare la sorte dell’autore, il sacrificio di chi viene soppresso a un passo dalla liberazione, il suo abbandonarsi all’Essere supremo: «Tienimi adesso, afferrami! / Il bastone mi cade, / Dio fedele, prepara il mio sepolcro».