Nella bozza della manovra il Fondo cinema e audiovisivo viene ridotto dai 700 milioni fissati negli ultimi anni a 510 milioni nel 2026 e a 460 milioni dal 2027. È la più drastica riduzione dai tempi dell’istituzione del Fondo. Le associazioni dell’esercizio cinematografico – Agis, Anec, Acec e Fice – hanno diffuso un appello rivolto al governo, al parlamento e al presidente della Repubblica: «Sono a rischio migliaia di lavoratori, di schermi, di comunità. Si annienta un presidio sociale e culturale». La reazione arriva mentre i dati Cinetel fotografano un mercato ancora fragile: poco meno di 500 milioni di incassi nel 2024 e circa 70 milioni di biglietti venduti, numeri stabili ma non sufficienti a sancire una ripresa consolidata.

Il taglio arriva dopo un anno in cui l’esecutivo ha costruito una narrazione identitaria sul ruolo della cultura italiana nel mondo, rivendicando festival, premi e produzioni nazionali come simboli dell’“orgoglio del made in Italy”. Ma nel 2024 la sottosegretaria alla Cultura Lucia Borgonzoni aveva promesso pubblicamente che «non ci sarebbero stati tagli al cinema».

Oggi – secondo più fonti interne alla maggioranza rilanciate dalle opposizioni – la stessa esponente leghista avrebbe scritto a Giorgia Meloni e a Giancarlo Giorgetti per chiedere un ripensamento. La crepa si allarga tra il ministero della Cultura, costretto a difendere un settore considerato strategico, e il Tesoro, che tratta il Fondo come una voce comprimibile tra sanità, fisco e famiglia.

Le opposizioni stimano in «oltre 650 milioni» la riduzione complessiva se si includono i capitoli collegati a promozione, digitalizzazione e sostegno alle sale. Al netto della semplificazione politica, il punto centrale è che il Fondo non è un trasferimento fine a se stesso: è l’asse portante del tax credit, lo strumento che sostiene fino al 40 per cento dei costi delle produzioni e che consente ai progetti di accedere a capitali privati e internazionali. Un pavimento più basso significa minore capienza negli anni successivi, possibili contingentamenti e un effetto domino su pre-accordi, distribuzione e acquisizioni.

La crisi del settore

Dietro la formula «riduzione della soglia minima» si intravede un’intera filiera già segnata dall’intermittenza del lavoro.

Nel 2024 e nel 2025 diversi studi indipendenti hanno registrato il calo delle giornate lavorate da troupe e maestranze. La filiera occupazionale del cinema – fatta di fonici, macchinisti, scenografi, tecnici della luce – dipende dalla continuità dei set. Se i progetti si fermano, le sale chiudono, le film commission arretrano e le scuole di formazione perdono prospettiva. Le associazioni parlano di uno scenario in cui ogni euro sottratto al Fondo genera una reazione a catena nelle province, dove le sale resistono come luoghi di comunità e non solo come attività commerciali.

Nel Parlamento che si prepara a discutere la manovra si costruisce un fronte trasversale per un emendamento che ripristini la soglia dei 700 milioni. Il Partito democratico denuncia lo «scaricabarile» tra ministero della Cultura e ministero dell’Economia, Italia Viva definisce l’intervento «una riduzione senza precedenti» e il Movimento 5 Stelle arriva a chiedere le dimissioni di Borgonzoni per aver «illuso il settore». Correggere la norma significherebbe trovare coperture aggiuntive e costringere la maggioranza a esporsi su una scelta che pesa anche simbolicamente: confermare il taglio equivarrebbe a sancire che la cultura non è infrastruttura strategica ma variabile sacrificabile.

Il cinema diventa così un banco di prova della coerenza di un governo che ha trasformato l’identità italiana in un marchio politico. Da un lato si rivendica il ruolo internazionale dell’audiovisivo, dall’altro si restringono gli strumenti che lo rendono possibile. L’appello delle associazioni, che coinvolge perfino il Quirinale, mostra quanto la cultura resti un terreno su cui il consenso può incrinarsi.

Anche perché la manovra non colpisce solo un fondo: mette in discussione un’intera idea di Paese, costringendo la politica a decidere se il racconto dell’Italia nel mondo valga più o meno di un risparmio contabile. Nei prossimi giorni si capirà se il cinema resterà un settore da sostenere o un capitolo da tagliare in silenzio. Un messaggio però è già chiaro: la cultura serve solo se è conveniente.