La presidente del Consiglio lo ha dichiarato ufficialmente: “Ho bisogno di sapere che ne vale la pena”. E quindi “Giorgia Meloni chiamatemi Giorgia” si candida non per andare al Parlamento europeo, ma per raccogliere una valanga di voti che le facciano sentire l’adesione dei suoi elettori al suo operato. Per chi non l’avesse capito e pensasse ancora sia tutto uno scherzo, sono le prove generali del premierato che verrà.

Elly Schlein si candida perché voleva sfidare Meloni sul suo terreno, perché vuole essere lei la sua competitor e vuole quindi definirsi in antitesi alla presidente del Consiglio, perché gli ex sponsor del suo partito non volevano lo facesse e in generale, anche lei, per contarsi. Raccogliere un po’ di preferenze, fare la differenza e dire ai rivali interni: volete ancora mandarmi via?

Anche lei non ha alcuna intenzione di andare a Strasburgo o a Bruxelles, dove del resto è già stata. Anche lei non è stata ancora in grado di dire qual è l’Europa che ha in testa il Partito democratico. Le cui liste sono quelle di un partito plurale, certo, ma possono destare confusione. Perché hanno dentro chi segue la linea ufficiale e vuole continuare a sostenere l’Ucraina ritenendo che la minaccia di Vladimir Putin riguardi tutti noi, non solo Zelensky, E chi pensa che la parola pace equivalga alla parola resa, o anche a una frase ben più spiccia: se la cavino da soli. E’ vero che il Pd doveva offrire una casa al pacifismo, chi se non il principale partito della sinistra, ma forse bisognava arrivarci in un modo più strutturato. Ad esempio, con un manifesto programmatico che faccia capire a chi lo vota cosa sta votando.

Carlo Calenda aveva giurato e spergiurato io non mi candiderò mai per un ruolo che non intendo ricoprire e invece lo fa, insieme a Elena Bonetti, perché a questo punto è partita la gara e come fosse un gioco mica ti puoi ritirare. Matteo Renzi lo ha appena annunciato anche lui, dopo aver dato dell’influencer alla premier, ma sostiene sia diverso: se sarà eletto ci andrà davvero.

Ma cos’è quest’ossessione di correre in prima persona senza far correre le proprie idee, se non la politica ridotta a una gara tra influencer? Quanti fallimenti ci sono dietro le eterne candidature dei soliti noti acchiappavoti: Vittorio Sgarbi, lady Mastella, il genero di Totò Cuffaro, amministratori rimasti senza città o Regioni da amministrare, ex governatori che hanno smosso mari e monti per essere candidati al Parlamento italiano e ora smuovono mari e monti per trasferirsi al Parlamento europeo? Quanti fallimenti ci sono in un leader in crisi di consensi come Matteo Salvini che candida Roberto Vannacci, un generale sospeso dal suo ruolo che ha un’unica idea sull’Europa: distruggerla in nome della riscoperta della Patria. E che ha un’unica proposta fin qui avanzata: trovare un animale che ne rappresenti la bandiera come l’orso per la Russia e l’aquila per gli Stati Uniti. Lo ha detto sul serio nell’intervista a La Stampa, non era su Scherzi a parte.

Chi può dare lezioni a chi, in questa partita truccata fatta di narcisismi? Dove chi non si conta non lo fa perché adesso non gli conviene, come Salvini e Giuseppe Conte (al quale va però dato atto di una non comune coerenza)? Soprattutto, chi ha capito che Europa hanno in mente lo stuolo di candidati che hanno sgomitato finora per essere in quelle liste? Le questioni cruciali che attraversano il nostro Continente sono riassumibili in tre macroproblemi: il primo è, come detto, la guerra in Ucraina. La necessità di un esercito e di una Difesa comuni. La minaccia russa sui Baltici. In generale, la minaccia del contagio delle democrazie illiberali: se Fratelli d’Italia e Lega non votano a Strasburgo contro Orban nel momento in cui gli si chiede di non comprimere la democrazia, senza neanche affannarsi a spiegare il perché di quella scelta, è chiaro che non stiamo parlando di un pericolo lontano, ma vicinissimo. Più di quanto non accettiamo di immaginare.

La seconda questione è quella irrisolta delle migrazioni. Un tema su cui i popolari hanno dimostrato di subire la fascinazione delle destre estreme, immaginando muri e Paesi terzi dove deportare chi fugge da persecuzioni e miseria. O perché sogna una vita migliore. Anche su questo, il fronte che dovrebbe considerarsi alternativo alle destre si presenta in ordine sparso e – tristemente- sottovoce.

La terza questione è quella economica: il modello solidale del Pnrr sarà replicabile davanti a nuove crisi, o è considerato un fallimento da cui tornare indietro in un rattrappimento di piccoli interessi e piccole patrie? Il patto di stabilità è universalmente accettato come un modo di tenere tutti insieme, cedendo ognuno qualcosa, o è rigettato nel nome del facciamo come ci pare, com’è parso dall’astensione unanime di tutti i partiti italiani: quelli di governo che lo avevano trattato incensandolo, e quelli di opposizione che non vogliono togliere frecce a un’eventuale fruttuosa campagna anti-austerità. Come si fa con la concorrenza di Cina e Stati Uniti: la si subisce o si cambia tutto, come ha proposto nel suo rapporto Enrico Letta?

Chi vuole trovare pensieri sull’Europa, oggi, non li troverà nei programmi dei partiti e nelle interviste dei candidati. Deve tornare indietro al 1941, ad Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, al manifesto di Ventotene che spiegava come solo un’Europa unita potesse tenerci tutti per sempre al riparo dal ritorno dei totalitarismi. Che fomentano diseguaglianze e di quelle finiscono per nutrirsi. Rileggetelo oggi. E’ impressionante, come sia tutto ancora lì. E come la politica italiana si mostri invece impreparata e inconsapevole. Persa in un giochino che non servirà a nulla se non a rese dei conti che terranno tantissimi elettori lontani dalle urne. In attesa di pensieri lunghi che non si vedono, nemmeno all’orizzonte.

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