Che cosa accomuna una generazione di uomini che andava a scuola col tram a cavalli e il suo improvviso ammutolirsi? Walter Benjamin avrebbe risposto che, di ritorno dal fronte, i soldati non erano più in grado di comunicare la propria esperienza vissuta e che il mondo, all’indomani dell’infausto evento, non sarebbe mai più stato lo stesso.

Secondo la definizione di secolo breve, il 1914 fu difatti una data spartiacque: rappresentò il vero inizio del Novecento. Quella generazione di uomini abituata al tempo lento e regolare delle stagioni si trovò, «sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo». Concorse a tale profonda mutazione, continuava il filosofo, la fine delle esperienze strategiche della guerra di posizione di stampo ottocentesco, l’inaspettata e incontrollata inflazione e non da ultimo l’ingresso di nuove forze sociali entro la compagine statale.

Anche la storia raccontata dall’ultimo libro di Mimmo Cangiano, Cultura di destra e società di massa, uscito per nottetempo (pp. 527, euro 22,00), identifica in quella guerra collettiva un momento di soglia per una certa cultura europea i cui estremi sono iscritti, come esplicita il sottotitolo (1870-1939), tra l’inizio della Terza Repubblica francese e lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Intrecciando letteratura, storia e filosofia, l’autore, che insegna Critica e teoria letteraria presso l’Università di Venezia, ricostruisce l’origine culturale della destra europea, e ne analizza le linee di intreccio e i differenti tracciati che si snodano variamente lungo l’arco cronologico prefissato, con un’attenzione particolare alla tradizione nazionale di Francia, Germania e Italia.

Nel secondo Ottocento, il repentino tracollo delle secolari strutture sociali a opera della modernità e della tecnica produsse un sommovimento culturale di amplia portata che coincise, secondo la filosofia di Nietzsche, con la morte di Dio e con la rispettiva sopraffazione dell’universale da parte del particolare e dell’effimero. Una nuova pluralità non solo culturale ma anche sociale – si pensi all’analisi delle masse di Gustave Le Bon – si stava allora affermando. A questa nuova visione del mondo, intellettuali come Thomas Mann, Ernst Jünger, Maurice Barrès o Charles Péguy risposero in modo agonistico, ricercando una nuova integrità, genuina e incontaminata, che facesse fronte alla frammentazione, alla «disgiunzione del particolare dal suo fine universale». Per restare all’ambito nostrano, Giovanni Boine e Curzio Malaparte sono gli autori con i quali si confronta Cangiano, mostrando la loro partecipazione a un orizzonte comune che li ascrive a quella cultura di destra, vòlta a recuperare una comunità connotata in senso identitario e nazionalistico.

Molte pagine e altrettante riflessioni sono, dunque, dedicate alla contrapposizione – che l’autore riconduce a un pensiero binomiale – tra la Kultur e la Zivilisation, concetti questi che nelle parole di Oswald Spengler, autore del Tramonto dell’Occidente (1918), corrisposero a due fasi necessarie e successive dello sviluppo di un medesimo orizzonte culturale, sociale e politico: la prima, di natura ascendente, espresse la coesione di un popolo il quale si riconosceva in una comunità di intenti, dai tratti omogenei e universali. La civiltà era qui intesa come salda, rigida, unita: rappresentava, nelle parole di Thomas Mann, «una certa organizzazione del mondo», un insieme di valori nei quali si sarebbe potuta riscoprire la realtà profonda, l’essenza di un determinato gruppo sociale o nazionale.

La civilizzazione era, al contrario, il processo di disgregazione di quella stessa società a causa del dominio del denaro e dell’utile, disvalori che corruppero il senso originario della comunità, a cui invece la cultura di destra ambiva di ritornare: «Sempre, – commenta Cangiano – dove uno dei termini risulta legato alla catena metonimica dell’essere e ai concetti di universalità, saldezza, rigidità, unità, il secondo si riferisce alla sfera del particolare, dell’apparenza, della disgregazione, della fluidità». Secondo questa prospettiva, dunque, la scomparsa della coesione comunitaria, la cosiddetta Gemeinschaft, implicò lo sradicamento dell’uomo che era ora atomo solitario senza cielo.

Non è un caso che l’opera di Spengler fu pubblicata in prima edizione a Vienna e che proprio in seno all’oramai perituro impero asburgico, che avrebbe dato i natali tanto all’autore del Mein Kampf che a quello dell’Uomo senza qualità, si collocò l’epicentro teorico e artistico della reazione al moderno: l’Austria fu, scrive sempre l’autore, «palcoscenico europeo della perdita del centro, tracollo delle antiche certezze, della struttura della razionalità classica, i cui modelli si pietrificano dinnanzi all’uomo che li ha creati e gli appaiono come atti di violenza contro l’inesorabile fluidità della vita».

Come ricordavo in apertura, però, la guerra scompaginò teorie e pratiche, e impose agli intellettuali europei di ripensare vecchi e logori schemi, allargando il concetto di comunità sia alle evidenze della tecnica che il conflitto aveva imposto in modo così brutale, sia alle nuove forze sociali che si erano affermate sulla scena politica. Fu Malaparte, in Italia, a scorgere nella disfatta di Caporetto (cui dedicò il suo primo libro, Viva Caporetto!) l’incombere delle masse nella vita dello stato: «Le due società capitaliste – scrisse Malaparte – disputantisi il potere commerciale e economico del mondo introdussero nella lotta un terzo elemento: il popolo (…) il proletariato armato, fu il paradosso dell’anno 1914».

Se la guerra assurse qui a elemento positivo per la comunità nazionale, capace di avviare una rivoluzione sociale paragonabile a quella bolscevica, per il tedesco Jünger alla guerra corrispose l’inizio di una nuova società dominata dallo strapotere della tecnica e dell’industria, nelle quali si scorgevano i segni di nuovi valori umani (incarnati dal prototipo dell’operaio). «La tecnica, cioè, assume nel suo impianto razionale – sono parole di Cangiano – gli spazi dionisiaci della distruzione, trasformando l’elemento ctonio in ragione strumentale e, viceversa, l’elemento razionale in scatenamento dionisiaco».

Secondo quest’ottica, che appartiene a una specifica visione del mondo, ma che nondimeno può essere d’aiuto per comprendere quei decenni, la Prima guerra mondiale fu dunque la molla che permise alla civilizzazione di divenire civiltà, al come di sostituire il perché.

Il racconto di Cangiano, di cui ho tentato di riannodare solo alcuni tra i molteplici fili proposti, si interrompe poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, ed è superfluo ricordare come questo lungo e non sempre del tutto coerente dibattito fu concausa di quanto di indicibile sarebbe avvenuto di lì a poco, in quei luoghi dove la tecnica aveva oramai svelato il suo volto più sadico e dionisiaco.