«Sono una persona piuttosto comune, nevrotica secondo il tipico modello dell’inglese inibito, potenzialmente paranoica, tanto che un tempo ero smodatamente timido, oltre a non essere alto quanto avrei desiderato, cosa che ho sempre ritenuto un grave difetto» – con queste parole Donald Winnicott si descrive, ironico e solo apparentemente modesto, nel corso di una conferenza che tiene nel 1970, un anno prima di morire.
È uno degli inediti del grande pediatra e geniale psicoanalista inglese – una figura tutt’altro che comune – che ho avuto il piacere di selezionare e commentare insieme ad Anna Ferruta per includerli nel volume che abbiamo intitolato Il sentimento del reale, da me tradotto. Scelte che abbiamo accompagnato con un apparato di introduzioni, note e commenti lessicali, oltre a una selezione di «lampi d’intuito», frasi lapidarie che racchiudono la genialità arguta racchiusa nei testi sconosciuti.
Si tratta, infatti, di una serie di tesori ancora ignoti ai lettori della psicoanalisi, attinti dagli archivi, che mai avevano visto la luce della diffusione al pubblico prima del 2016, quando sono stati inclusi nella monumentale edizione delle Collected Works, inedita in Italia. Troviamo il tono fresco del pensiero in fieri, in scritti in cui Winnicott introduce per la prima volta quelle che diventeranno fondamentali novità per lo sviluppo del pensiero psicoanalitico; quello spontaneo e irriverente delle registrazioni di seminari in cui commenta il lavoro dei colleghi; quello acuto e intuitivo dei casi clinici, preziose trascrizioni di sedute e interventi con pazienti in cui vediamo la sua creatività di clinico in azione; e la voce empatica delle trasmissioni radiofoniche registrate per la Bbc, in cui aiuta le madri a conoscere il proprio bambino sintonizzandosi con la sensibilità delle ascoltatrici alle prese con qualcosa di straordinario e spaventoso: «il vostro bambino è diverso da qualsiasi altro bambino che sia mai nato!».
In una di queste descrive la tendenza del neonato a mordere il capezzolo della madre; per Winnicott è l’occasione per parlare di uno dei conflitti centrali dell’essere umano, sintetizzato magistralmente: «come rimanere in contatto con i propri impulsi primitivi e allo stesso tempo proteggere le persone e le cose amate». C’è un leone dentro di noi, spiega Winnicott, e le madri hanno l’occasione di permettere ai neonati di sentirlo, senza temere di dover vivere in una gabbia. Aggiunge poi che «la differenza tra l’animale umano e il cucciolo di leone non è che all’uomo manchi l’appetito, ma che al leone manca l’immaginazione».
Proprio l’immaginazione è il terreno dell’esperienza che il grande psicoanalista ha aperto all’indagine scientifica e clinica, spiegando che il gioco è un luogo che dobbiamo poter abitare, qualcosa di assolutamente vitale. Vitale in quanto ha a che fare con l’esperienza dell’essere vivi, allo stesso tempo in contatto con noi stessi e con il mondo. È questo «il sentimento del reale».
Un’altra parola dominante negli inediti è «primitivo», un termine cruciale che per Winnicott è una caratteristica intrinseca allo sviluppo, una qualità dell’esperienza che è necessario poter sperimentare. Il primitivo ha a che fare con la ferocia, quella del cucciolo di leone, con una forma di amore sana, che appartiene alle relazioni precoci di ciascuno di noi, che Winnicott chiama «ruthless love», amore spietato.
Il sentimento del reale apre anche a una riflessione sulla necessità di integrare questi aspetti dentro di noi, per poterli trasformare in un sogno o in un gioco, rimanere autentici in contatto con il proprio sentire e con l’altro. I bambini, a differenza dei cuccioli di leone, possono giocare e sognare di attaccare, senza divorare nessuno.
Tra gli inediti troviamo anche un Winnicott attento a ciò che accade nel mondo, consapevole e preoccupato – allora, come lo siamo noi oggi – delle sorti di un’umanità che non è capace di scegliere di non agire l’aggressività e finisce per trasformarla in violenza.
Un’altra «perla», tra i tesori trovati, è uno scritto intitolato Incontrarsi per essere derubati, appunti che risalgono agli anni della Seconda Guerra Mondiale. In quelle pagine, che si aprono giocose e si chiudono serissime, Winnicott affronta «un sintomo», quello delle persone che vengono derubate, che considera «una malattia comune delle casalinghe»; lo spiega così: «una madre che ha il latte nel seno e l’amore nel cuore è ipso facto passibile di furto ed è una fonte di stimolo per gli istinti predatori dei neonati e degli altri. Allo stesso modo, se ha del denaro nella borsa è uno stimolo per l’avidità degli altri». Così, con un’acrobazia del ragionamento paradossale che ci troviamo avvinti a seguire, arriva a dire che «Per l’inconscio possedere è un furto». La riflessione che segue da psicologica si fa politica, poiché riguarda le relazioni tra «chi ha e chi non ha nel mondo», e tra le nazioni. L’Inghilterra, con l’esibizione delle sue Colonie, a suo avviso troppo a lungo ha evitato le proprie responsabilità, comportandosi come «la casalinga che ha lasciato la borsa in giro».
Anche se amava la poesia – tanto da voler intitolare la sua autobiografia, che non ha mai scritto, «Not less than everything», non meno di ogni cosa, da un verso dei Quattro quartetti di Eliot – non so se Winnicott avesse letto Emily Dickinson. Senz’altro però avrebbe risuonato con questi suoi versi, in cui anche Dickinson usa la parola «ruthless»: «Come sono spietati i gentili – /come crudeli i miti – / Dio ruppe il suo contratto con l’agnello/ per dare forza al vento -».