l’analisi
Bill Emmott
Così su “La Stampa”
E così adesso sappiamo che criticare la globalizzazione è elegante e accettabile, perché perfino Mario Draghi lo fa. Nel suo discorso a una prestigiosa associazione di economisti negli Stati Uniti, si è unito a molte voci assai meno esperte che addossano la responsabilità degli effetti della globalizzazione al populismo e ai trend illiberali nelle democrazie occidentali. Ma non è proprio esatto, come lui dovrebbe sapere.
Parlando nella terra dei sussidi protezionistici alle industrie del presidente Joe Biden e della minaccia di un Donald Trump ancora più protezionista nelle elezioni di novembre, indubbiamente è stato giusto prendere atto di alcuni dei veri problemi socioeconomici che queste politiche illiberali e anti-commerciali stanno cercando di affrontare. Ma davvero per questi problemi si deve accusare la globalizzazione? Da buon economista, sicuramente Draghi sa che non è così.
Il nocciolo del problema, ha detto giustamente, è la crescita delle disparità di reddito e della simultanea insicurezza del posto di lavoro che ha portato numeri ingenti di persone della classe media e della classe lavoratrice a sentirsi “lasciate indietro”, negli Stati Uniti ma anche in molti Paesi europei, e perfino in Giappone. Questo fenomeno si è manifestato in una percentuale in calo del “reddito da lavoro”, come lo chiamano gli economisti – o dei “salari”, come dice la gente normale – e in una quota crescente degli utili delle aziende.
Questa, tuttavia, non è conseguenza della globalizzazione. Prima di tutto, gli studi economici ci dicono che è conseguenza della tecnologia, dell’automazione delle industrie manifatturiere e, in tempi a noi più vicini, anche dei servizi. Inoltre, è conseguenza di politiche di governo che di proposito hanno abbassato i sussidi del welfare e hanno ridotto il potere contrattuale dei sindacati dei lavoratori, oltre a rimuovere dal mercato del lavoro le normative di protezione.
Detto altrimenti,
durante gli anni Novanta e Duemila, mentre aumentavano le disuguaglianze e l’insicurezza del posto di lavoro, i governi avrebbero dovuto introdurre provvedimenti atti a mitigare questi trend. Questo è accaduto molte volte nel corso dei decenni del Dopoguerra: quando la concorrenza e l’innovazione minacciavano di spaccare la società, sono stati fatti sforzi pubblici volti a contrastare o quanto meno alleviare simili divisioni. Durante gli anni Novanta e nel XXI secolo, invece, troppi governi non sono intervenuti per gestirne l’impatto, oppure hanno introdotto politiche che hanno peggiorato le cose.
La domanda importante da porsi è: perché? Una risposta è che probabilmente non hanno capito quello che stava succedendo fino a quando non è stato troppo tardi. Un’altra è un problema caratteristico delle democrazie: aziende forti e gruppi di imprenditori potenti hanno esercitato pressioni contro le politiche volte a gestire la disuguaglianza e l’insicurezza, usando spesso le loro donazioni politiche per imporre i loro desideri. Le grandi società industriali, e adesso soprattutto le aziende tecnologiche, si sono comprate la democrazia.
Che dire della globalizzazione, quindi? Draghi ha ragione quando dice che il libero commercio può funzionare convenientemente e sostenibilmente soltanto quando si basa su regole concordate e metodi atti ad applicare quelle regole e a risolvere le controversie. Eppure, il motivo per cui nel 1995 si è celebrata la fondazione dell’Organizzazione mondiale del commercio (World trade organization, Wto) è proprio il fatto che, finalmente, con il Wto i commerci sarebbero stati governati da un sistema di risoluzione delle controversie secondo regole concordate.
Quando la Cina è entrata nel Wto e, ciò nonostante, ha pagato ingenti sussidi senza che si seguissero quelle regole è stato chiaramente un problema, come ha detto Draghi. La domanda giusta da porsi è perché gli altri governi, inclusi quelli di Usa e Ue, non hanno applicato quelle regole. È accaduto, come affermano alcuni americani e come sembra lasciar intendere Draghi nel suo discorso, soltanto perché si aspettavano che la globalizzazione trasformasse la Cina in una democrazia obbediente alle regole? Oppure è accaduto per un mix di compiacenza e, ancora, di pressioni di lobby potenti che volevano guadagnare miliardi nel mercato cinese?
Il fatto è che la globalizzazione – e con essa il fenomeno economico di fondo che questa bella parola ha reso quanto mai glamour, ossia la concorrenza – sta attirando critiche ingiuste e fuorvianti. Il problema con cui sono alle prese le democrazie liberali nasce dal mancato impegno dei governi a passare all’azione per risolvere le disuguaglianze e l’insicurezza, azione che rientra interamente nelle questioni di politica interna e non ha niente a che spartire con i commerci, la Cina o la globalizzazione.
È vero, come dice Draghi: la globalizzazione sta cambiando, in parte per motivi geopolitici e per la guerra in Ucraina. Ma non se ne sta andando. Molti Paesi stanno traendo vantaggi da nuovi modelli di produzione e commercio, tra cui India, Indonesia e tutto il sud-est asiatico, che al momento sta crescendo più rapidamente della Cina. Il capitalismo è sempre creativo, e la tecnologia facilita ancora di più quella creatività.
Il vero problema delle democrazie liberali occidentali sta nella distorsione dei loro sistemi politici attuata dal potere concentrato delle multinazionali, ma anche nell’elevato livello del loro debito pubblico. Con debiti così enormi, e con una popolazione sempre più anziana che richiede più assistenza sanitaria e più spesa sociale, incontreranno difficoltà nella gestione delle disuguaglianze e dell’impatto della tecnologia. È qui che devono trovare soluzioni. Accusare la globalizzazione serve soltanto a distogliere l’attenzione dai veri problemi. E ai populisti piace farlo proprio per questo motivo. (Traduzione di Anna Bissanti )