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L’intervista di Francesca Schianchi a Matteo Renzi su La Stampa segna un passaggio importante nella strategia dell’ex premier, che tenta di consolidare Casa riformista come nuova piattaforma centrista e riformista all’interno del centrosinistra. Con un tono di autoaffermazione, Renzi rivendica il risultato toscano — 8,8%, secondo partito della coalizione e terzo in assoluto — come la prova che il progetto non è più un’intuizione, ma una realtà politica in crescita. L’obiettivo dichiarato è ambizioso: arrivare al 10% a livello nazionale e rifondare, nelle sue parole, una “nuova Margherita”.
Il messaggio politico si muove su due livelli. Verso l’interno della coalizione, Renzi rivendica centralità numerica e programmatica: “senza di noi si perde”. Si propone come il perno moderato del campo progressista, una componente imprescindibile per costruire una maggioranza di governo alternativa alla destra. Verso l’esterno, apre ai “delusi di Forza Italia” e ai “civici senza casacca”, tentando di recuperare quello spazio di centro oggi sguarnito dopo il tramonto di Berlusconi e la dissoluzione del Terzo Polo. È la riproposizione di una strategia già nota: occupare il centro politico ed elettorale, presentandosi come forza pragmatica, amministrativa e non ideologica.
L’intervista contiene anche un elemento polemico, che serve a differenziare Renzi da altri protagonisti del campo progressista. Critica Gentiloni e Calenda come “professionisti del commento”, Conte come interlocutore da giudicare solo sui contenuti, e riconosce la leadership di Schlein soltanto “fintanto che resterà l’attuale legge elettorale”. È una linea di distinzione che ribadisce il primato dell’azione e del consenso rispetto al dibattito interno e ai veti reciproci.
Tuttavia, il limite — non affrontato — resta la reale capacità di Casa riformista di superare la dimensione toscana e trasformarsi in una forza nazionale coesa, capace di unire le diverse anime del “centro” senza ricadere nel personalismo che ha segnato la parabola di Italia Viva.
Perché questo accada, servono almeno tre passaggi:
- Radicamento territoriale. Finora la proposta si regge su reti amministrative e personali più che su strutture locali solide. Senza un’organizzazione autonoma e riconoscibile anche nel Nord e nel Sud, il progetto rischia di restare un satellite del Pd o un contenitore civico temporaneo.
- Linguaggio politico condiviso. Il “riformismo” evocato da Renzi resta un’etichetta vaga se non si traduce in una piattaforma coerente su temi come transizione ecologica, lavoro, welfare e diritti. L’idea di una “nuova Margherita” presuppone un lavoro di sintesi tra culture diverse — cattolico-sociale, liberale, progressista — che non può essere affidato a un solo leader.
- Ridefinizione del ruolo del fondatore. La credibilità di Casa riformista passa da una trasformazione di Renzi stesso: da figura polarizzante a garante di un progetto collettivo. Finché il movimento sarà percepito come una nuova incarnazione di Italia Viva, difficilmente potrà essere il punto di riferimento stabile del riformismo italiano.
In conclusione, la sfida di Casa riformista non è tanto quella di raccogliere qualche punto percentuale in più, quanto di diventare una vera forza politica nazionale, strutturata e inclusiva. Per riuscirci, Renzi dovrà accettare una forma di “de-renzizzazione” del suo progetto, aprendo spazi autentici di partecipazione e costruendo un’identità politica autonoma, non solo elettorale. Solo così potrà trasformare un’operazione di leadership personale in una proposta riformista capace di incidere sul futuro del centrosinistra e del Paese.