Che non sia un film dalle tonalità spensierate ce lo dice la (coraggiosa) scelta di girarlo in bianco e nero: è un evidente richiamo allo stile del cinema neorealista del Secondo dopoguerra, filone a cui la regista si ricollega chiaramente, sia per l’ambientazione sia per i temi che sorreggono l’intera trama. Questo espediente filmico, insieme a molti altri, ha il pregio di riportare gli spettatori ai «vissuti» storici e culturali di quegli anni, sfruttando la potenza dell’immersione sensoriale.
Insomma, la regista ci fa «toccare con gli occhi» quel tempo in cui, tra le macerie dell’antico Stato italiano e in una Roma occupata (simbolo di ogni città italiana in ricostruzione), si sono formati i valori della nostra Repubblica: valori che proprio ultimamente sembrano vacillare, sia a livello sociale sia a livello culturale; in verità, ancora molti paradigmi antichi stentano a cedere il passo alla contemporaneità, e tra questi, non ultimo, è proprio il patriarcato.
Infatti, non dimentichiamo che il film in questione è soprattutto una pellicola sulla questione femminile. Purtroppo, con un «triste e doloroso tempismo», che i cuori di tutti avrebbero volentieri evitato, l’uscita nelle sale è coincisa con il grande sdegno suscitato dal femminicidio di Giulia Cecchettin, tragica vicenda che ha scosso le coscienze proprio su questo tema. In questo senso, il cammino e i gesti di libertà e indipendenza della protagonista Delia sono, al tempo stesso, personali e collettivi: essi sono una narrazione del vissuto di tutte le donne che hanno costruito l’Italia e che ci ricordano di non aver bisogno di un uomo per essere difese, promosse e riconosciute, quanto piuttosto di una «voce» con cui esprimersi davvero, affinché i diritti siano riconosciuti ugualmente a tutti. L’abito «da sogno» – simbolo del valore di chi lo porta – non è quello da sposa, quanto piuttosto quello indossato per e nella libertà delle pari opportunità.