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“Nessuna croce manca”, si legge nella poesia di Ungaretti, San Martino del Carso. Viene in mente questo passo quando si pensa ai concorsi degli ultimi anni per diventare insegnante di scuola secondaria. La forma è il test a crocette, una prova al computer. Il quiz garantisce concorsi veloci, grazie a procedure snelle, con commissioni agili. La prova è valutata con un punteggio massimo di cento punti. Per superarla, ne servono settanta. Le domande sono cinquanta e bisogna rispondere in cento minuti, quindi una ogni due. Vengono attribuiti due punti per ogni risposta giusta e zero per quelle sbagliate o non date: per raggiungere settanta punti serve rispondere in modo corretto ad almeno trentacinque domande su cinquanta. Chi passa la prova scritta affronta poi una prova orale. Il punteggio finale consente di formare la graduatoria definitiva, che tiene conto anche della valutazione dei titoli conseguiti negli anni. Successivamente si entra di ruolo. Obbligatorio, per partecipare al concorso, avere comprato i 24 Cfu (“crediti formativi universitari”) alle università. Come al supermercato, per intendersi!
Sono in tanti, in vari ambiti del sapere e no, ad accusare la scuola di essere eccessivamente nozionistica: peccato che poi la politica bandisca un concorso con una prova basata esclusivamente sulle nozioni. È un sistema inadatto, troppo sbrigativo. Alcune domande hanno risposte incerte, altre imprecise, altre ancora perfino troppo semplici. Sappiamo che per una commissione è più lungo e faticoso correggere elaborati di venti pagine. Da questo tipo di prove, siamo convinti davvero che un docente abbia assimilato la conoscenza? E come vuole trasmetterla agli studenti? Sul come vuole trasmetterla si riscontrano grandi fragilità, carenze e inadeguatezze.
Oggi la società necessita di “insegnanti ostinati e in direzione contraria”, per parafrasare De André. Non si può che essere ostinati nell’atto di entrare in un’aula e sapere di essere rimasti una delle pochissime istituzioni che si assumono la responsabilità di fronteggiare la fragilità dei giovani. Gli insegnanti sono dunque ostinati per tentare di combattere il subdolo germe dell’atelofobia, così come lo ha raccontato Cristina Dell’Acqua sul “Corriere della sera” del 27 dicembre 2022. Perché l’atelofobia è, appunto, il “timore ossessivo di essere imperfetti”. Dunque, ostinatamente, gli insegnanti lottano in ogni scuola di ordine e grado, per far capire ai ragazzi che siamo tutti “imperfetti”, e che la scuola è proprio il luogo in cui è necessario ritrovarsi assieme per confrontare fragilità e punti di forza di ciascuno di noi.
Se la scuola necessita di questi insegnanti, allora deve formarli in maniera adeguata. L’intensità, la preparazione, lo studio, gli approfondimenti, l’attenzione al tempo, sono solo alcuni degli ingredienti per costruire la lezione, che diventa un momento sacro (come ricorda la professoressa Maria Diviccaro, docente di letteratura italiana, a Firenze). Tutte competenze che muovono corde, sentimenti, emozioni, e logos, essenziali per la relazione con i giovani, quelli che un domani saranno i futuri adulti; e futuri insegnanti, anche.
In questo momento storico, è senz’altro necessario ripensare la scuola. E il tempo diventa un fattore centrale. Ci vuole tempo per formare gli insegnanti. Per comprendere il disastro del reclutamento degli insegnanti, oggi, è necessario rileggere il percorso che dal passato, non tanto remoto, ci ha portato al presente. Ma è anche necessaria la rilettura del principio esposto, già nel 1899, da Dewey in Scuola e società: la scuola cambia col cambiare della società. E in ogni fase storica vanno riconosciute le strutture portanti per adeguare la scuola, con una politica di riforme organica e razionale.
Il concorso dei docenti di scuola secondaria del 1999, per fare un esempio, prevedeva lo svolgimento di un tema di argomento disciplinare. Un tema con la “T” maiuscola, complesso e articolato, da svolgere in otto ore. Ogni tema aveva in calce una domanda di natura metodologico-didattica: a chi insegneresti questo e come? Che differenza c’era tra quel concorso e quello attuale? Sicuramente una: ancora il tempo. Il tempo, che serve all’espressione dell’originalità, all’intelligenza, al pensiero. Alla capacità di correggersi e rivedersi. Di aggiungere e di sfumare.
Per far ripartire la scuola serve investire sugli insegnanti. Si tratta di proporre nuove articolazioni per la carriera del docente, prevedendo uno sviluppo professionale che valorizzi l’impegno e la qualità dell’insegnamento, promuova l’innovazione didattica, metta al servizio dei docenti più giovani l’esperienza maturata dai docenti di lungo corso. Questa scelta si accompagna alla riformulazione del percorso ordinario di reclutamento dei nuovi insegnanti. Ci vuole una scuola di formazione per gli insegnanti, una scuola che il futuro insegnante sceglie, in grado di affrontare una selezione in entrata. Richiamo al modello della Scuola di specializzazione all’insegnamento secondario (Ssis), nata nel 1990 per volere del ministro Berlinguer. Nei dieci anni di attività, ha svolto un ruolo fondamentale nel cercare di formare una classe docente consapevole del proprio ruolo e competente, non solo sul piano disciplinare ma anche pedagogico e didattico.
Non era una scuola teorica, perché, nel secondo anno di frequenza della Ssis (o del Tirocinio formativo attivo, che è venuto dopo), erano previste ore di tirocinio nelle scuole, assistiti da insegnanti tutor e interventi diretti in classe. Certo, si può discutere se aumentare le ore di esperienza in classe e diminuire lo studio della didattica delle discipline, se si può completare la formazione in due o tre anni, e tanto altro ancora. Ripartire da quel modello, perfezionarlo e modificarlo dove necessario, e adattarlo al tempo presente. Questa è la sfida. Sicuramente è fondamentale avere insegnanti motivati, abilitati e che hanno scelto la scuola come lavoro principale.
Formazione e reclutamento sono problemi da affrontare con molta urgenza, se vogliamo garantire la crescita culturale e professionale del nostro Paese. Appare emblematico che, da anni, non si riesca a decidere cosa fare della formazione degli insegnanti: è il sintomo forse più evidente di un Paese che ha smarrito l’idea del proprio futuro, che non riesce a progettare nulla se non nell’immediato. Ma l’educazione dà i suoi frutti nel tempo, con pazienza e passione.