La conclusione del processo Ruby ter ci libera dalla verità giudziaria. L’errore di procedura che ha decretato che il “fatto non sussiste” certifica, ha scritto Federico Zuolo su questo giornale, che lo stato di diritto sta bene, in questo caso, perché dimostra che quella giuridica è non una «verità a tutti i costi, ma in un modo che tuteli tutte le parti in causa».

Questa conclusione fa un’altra cosa importante: ci libera, come cittadini, dall’ossessione per la verità giuridica.  Ci fa essere liberi di giudicare Silvio Berlusconi come leader politico.

La vicenda Ruby ter ci parla, e ci ha parlato, di una politica che Giovanni Sartori negli anni Novanta, prima che le vicende sessuali conquistassero la scena, aveva rubricato come “sultanato” e Norberto Bobbio come “despotismo”.

Per entrambi era difficile incasellare questro neopatrimonialismo che usava uno stile di discorso completamente inedito, per cui lo scandalo generava consenso. Un rovesciamento della politica dell’opinione che lasciò inizialmente senza parole.

La stagione di Berlusconi più che una stagione si è col tempo trasformata in una pelle che ha dato fisionomia a tutta la politica nazionale: nel discorso pubblico e politico, nel tipo di giudizi impiegati, sempre più estetici e moralistici invece che politici. Ha tolto onorabilità alle idee politiche alimentando l’impressione che le differenze fossero solo apparenze.

Forse solo “il comunismo” restava inossidato, ma come un marchio negativo che non significò nulla di preciso se non una merce avariata. Ha tolto onorabilità alle istitutizioni, calcate con allegria carnevalesca da amiche e commensali.

Il fatto giudiziario “non sussiste” ma sussistono fatti e parole fuori delle aule giudiziarie: la ex presidente del Senato e l’attuale Presidente del Consiglio hanno votato nel parlamento di allora a favore della dichiarazione di Berlusconi che Ruby era la nipote di Mubarak.

La verità che resta al nostro giudizio e resta alle cronache è fatta di cose, parole, decisioni che stanno fuori delle aule giudiziarie. E ci rende liberi, finalmente, dalla cappa dei riti processuali, per parlare di quel che è diventata la democrazia italiana in quasi trent’anni.

Riprendere in mano il filo del discorso iniziato da Sartori e Bobbio è un atto di libertà dalla saga processuale.

Dopo il primo momento di stupore, è apparso chiaro ai due grandi studiosi che “despotismo” e “sultanato” erano concetti inadeguati, anche se evocativi. Il successo mediatico del partito azienda metteva fuori uso quelle forme classiche.

Per comprendere il carattere della leadership di Berlusconi, Bobbio e Sartori rivolsero l’attenzione al mondo dell’opinione, fuori dell’ordine istituzionale. Bobbio si concentrò sulla forma partito e la crisi dei partiti tradizionali; Sartori sul potere dei media e la “videocrazia”.

Le loro mosse indicavano una trasformazione della democrazia che comincia dalla formazione delle opinioni piuttosto che dal potere istituzionale. Non tirannie o sultanati dunque, ma populismi e forme plebiscitarie.

Ed è proprio a questo tema che possiamo oggi andare con tutta libertà, per capire come le democrazie possano prendere la strada del populismo; come la politica si corrompa dei suoi caratteri peculiari pur restando le istituzioni in piedi.