L’amministrazione Biden approva un piano straordinario di 370 miliardi di dollari, l’Inflation reduction act (Ira), a sostegno dell’industria americana. L’Europa si adegua e sdogana gli aiuti di Stato. Demonizzati per decenni, negati ai lavoratori in lotta per la difesa del posto di lavoro o ai cittadini truffati dai giochi spericolati della finanza, gli aiuti di Stato diventano all’improvviso appetibili e benaccetti. Considerati il nemico numero uno della concorrenza, un’alterazione inaccettabile del corretto funzionamento del mercato, tutto d’un tratto sono indispensabili. A bussare a soldi in primis sono le aziende dell’auto.

Anche i dazi, sempre avversati come ostacolo al libero commercio, si trasformano in un baluardo dell’economia. L’arma del protezionismo è invocata per frenare la corsa della Cina al primato tecnologico («America first»). Così, dopo avere teorizzato per lunghi anni «meno Stato e più mercato, i sacerdoti del liberismo, accompagnati dal solito coro politico-mediatico, si scoprono d’emblée statalisti. Aiuti di Stato e dazi come riparo dalla tempesta globale. Qualcosa che somiglia al capitalismo “in un solo paese”. Enormi risorse sottratte ai contribuenti per essere consegnate, sotto forma di sussidi, alle aziende. Certamente un bene per chi li riceve (vedi Ford, Stellantis, Volkswagen, e così via), ma non è detto che la collettività ne tragga benefici. Siamo al laissez faire a spese dello Stato.

Sembrerebbe una spericolata giravolta ideologica. Il soccorso statale all’economia non è in assoluto una novità. Di recente è stato utilizzato con il covid e, in misura minore, con la crisi energetica. Fare il “pieno” di soldi alle imprese, abbinandolo magari a una verniciata di verde, rappresenta il modo più semplice ed efficace per rimettere in carreggiata la macchina dell’economia. Nessuna incoerenza, dunque, bensì una (apparente) discontinuità utile a puntellare un modello di produzione e di consumo sempre più esposto a scosse improvvise e a rischio d’implosione.

L’Ue cerca di tenere il passo, allenta le briglie degli aiuti di Stato e sta negoziando con l’alleato americano condizioni commerciali meno proibitive. Nel recente Consiglio d’Europa si è imposta la linea della “liberalizzazione” dei sussidi pubblici voluta dall’asse franco-tedesco. Per ora niente fondo sovrano europeo, un Recovery 2 sulla scia del Ngeu. Una scelta politica che premia i paesi con maggiore capacità fiscale e penalizza quelli più indebitati, tra cui l’Italia, ai quali però è consentita una maggiore “flessibilità” nel rimodulare i fondi europei, a partire dal Pnrr. Un altro modo, sia detto per inciso, per trovare più soldi per le imprese, sacrificando magari i contenuti più innovativi del piano. Ma chi decide? Sono i governi o i padroni dell’economia e della finanza? E per fare cosa? Si vede un gran daffare a sostegno dell’economia, ma restano sfumati e incerti gli obiettivi. I bisogni sociali, i problemi della redistribuzione e del sotto-finanziamento del welfare sono sostanzialmente ignorati.

Nonostante la «policrisi», termine che racchiude le emergenze che stiamo vivendo, tutto viene ricondotto alla priorità della crescita economica (reductio ad unum). Il green deal è visto in funzione della ripresa produttiva, non di una vera riconversione energetica, di un mercato più regolato e di nuovi stili di vita. Perfino alla guerra si guarda non in relazione ai drammi umani che comporta, alle morti e alle distruzioni, bensì per i riflessi che ha sugli affari e sulla finanza. La fantasia si esercita sulle convenienze del momento e sugli strumenti da mettere in campo, ma non muta il paradigma culturale. Continua a prevalere una visione dell’economia totalmente disancorata dal benessere sociale e dai rischi ambientali.

L’uso delle risorse pubbliche è incanalato dentro schemi e “regole del gioco”, pensati sostanzialmente per codificare i rapporti economici e di mercato esistenti. Uno stato di cose che, senza una svolta radicale, condanna l’Europa ad un ruolo secondario sulla scena globale. L’Ue soffre di una doppia dipendenza: verso l’Alleanza atlantica, a guida anglo-americana, che decide sulle politiche di difesa e di sicurezza; e verso gli Stati membri che non rinunciano al loro potere e alle loro prerogative in materia fiscale e su altro ancora. Unità militare sotto l’ombrello della Nato da un lato, frammentazione in 27 Stati-nazione dall’altro. Il grande problema dell’Europa consiste nella mancanza di «sovranità», in un’architettura politico-istituzionale non adatta alle sfide del nostro tempo. Un’Europa divisa, in cui ogni paese ha diritto di veto e mantiene politiche di bilancio separate, resta debole e subalterna, non possiede l’autonomia e l’unità necessarie su questioni fondamentali e decisive quali la difesa, la pace, l’ambiente, l’energia, il welfare, l’immigrazione. Alle elezioni europee manca solo un anno e sarebbe il caso di arrivarci preparati.