Cesare Accetta è una persona schiva, appartata, un gigante nascosto nelle retrovie. Lavora e scrive con la luce da oltre trent’anni, passato dalla fotografia analogica, alle luci di scena e sul set. Fotografo di scena della nuova scena napoletana dagli anni ’70 e ’80, ha documentato i primi lavori di Enzo Moscato, Annibale Ruccello, Mario Martone, Antonio Neiwiller, Falso Movimento. Molti degli scatti memorabili di spettacoli/ manifesto del teatro d’avanguardia nazionale di quegli anni portano la sua firma e la cifra riconoscibile di un «nero sensibile» che tutto avvolge. Ha lavorato come direttore della fotografia dei film di Antonietta De Lillo, Pappi Corsicato, Antonio Capuano e molti altri. «Penso di essere fortunato a lavorare in progetti che m’interessano», dice con la sua solita modestia a proposito de La Cupa, spettacolo di Mimmo Borrelli con cui ha vinto il Premio Ubu 2023 come migliore light designer. Ci sentiamo mentre è a Modena per il debutto di Antonio e Cleopatra di Walter Malosti.

Hai cominciato in un momento particolare per la scena napoletana.

Iniziai a fotografare a 19 anni, alcuni amici mi portarono al TIN Teatro Instabile di Michele del Grosso in via Martucci. Erano gli inizi degli anni ’70, il TIN era uno spazio molto aperto: oltre al teatro, c’erano rassegne di cinema d’essai, sul nuovo cinema americano, ci suonavano gruppi emergenti. Ricordo un primissimo Pino Daniele. Napoli era uno dei posti dove anche senza grandi possibilità potevi crescere, costruire un percorso nuovo in tutti i settori. La città era un fermento, c’era molta partecipazione.

Questo ha dato luogo a sperimentazioni i cui segni sono ancora visibili oggi.

Ai premi Ubu ci hanno chiesto una parola per il teatro del futuro: io ho detto «ricerca», intesa come ritorno alla ricerca. Mi sembra un po’ penalizzata, soprattutto nelle nuove generazioni. Si è entrati in un meccanismo di produzione industriale, c’è una sorta di omologazione, una corsa a dimostrare capacità professionali, a gestire l’istituzionalità: questo tarpa le ali all’osare. Ho nostalgia delle cantine: non è detto che fosse tutto bello ma si ricercava, si sbagliava, oggi siamo attenti a fare il compitino;forse quell’atmosfera di rinnovamento andrebbe recuperata. Non voglio fare un discorso nostalgico o retorico, però sento che potremmo imparare qualcosa dal passato.

In questi giorni a Napoli c’è stato un convegno su Antonio Neiwiller, personaggio cardine della scena teatrale partenopea con cui hai fatto un pezzo di strada insieme.

Quello con Antonio è stato uno dei miei tanti incontri fortunati, la nostra è stata una fratellanza. Mi ha segnato profondamente. Fondammo lo studio Memini a Palazzo Marigliano: io ero un giovane fotografo, lui un giovane regista. Non c’era neanche una porta a dividere il mio studio dalla sua casa, solo una tenda. Era uno scambio continuo di idee, situazioni, spettacoli. Quello spazio fu uno dei centri più attivi di quegli anni napoletani, ospitammo artisti, riunioni, mostre. Ricordo la primissima rassegna di Falso Movimento nel ’79, Falso Movimento live, ogni componente del gruppo presentava il suo lavoro. In quell’occasione conobbi Mario Martone.

Quali altri incontri hanno segnato il tuo percorso?

Ne ho avuti molti, forse anche per la capacità di cercarmeli. In primis quello con la mia compagna Laura Angiulli. Al di là della dimensione teatrale, c’è una storia di vissuto insieme che inizia negli anni ’80, una spinta verso un modo di operare attraverso il confronto. Poi tutti i nuovi autori e registi napoletani: Martone, Servillo, Moscato, i Santella, Pappi Corsicato, una giovanissima Nina Di Majo, Carlo Cerciello, Mimmo Paladino. Credo che avessi illuminato uno spettacolo con le sue scene, da lì è iniziata la nostra collaborazione. Non è stato solo un incontro umano ma formativo anche se non voglio usare la parola maestro che mi sembra molto abusata; si tratta di rapporti che ti fanno crescere. Un altro incontro bellissimo è stato quello con Remondi e Caporossi. Li avevo ospitati in una mostra quando ho aperto lo studio nel ’79- ’80, li considero tra i capisaldi della ricerca teatrale in Italia. Con Giuseppe Bertolucci ci siamo conosciuti per la regia televisiva di uno spettacolo teatrale, Luparella di Enzo Moscato. Tengo molto anche al rapporto con Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni, insieme abbiamo costruito lavori importanti.

Come nasce il tuo lavoro con la luce?

Sono autodidatta. Come fotografo di scena ho avuto la possibilità di assistere a ogni passo della costruzione degli spettacoli. Non mi occupavo solo di teatro: facevo pubblicità, architettura. Spesso per alcuni progetti mi chiudevo nello studio e lavoravo con le luci. Le due cose sono andate di pari passo. Ho iniziato guardando il lavoro degli altri. Mi viene in mente Juraj Saleri che vidi quando andai a fotografare la primissima versione di Ferdinando di Annibale Ruccello. Lo stesso è accaduto con Bigazzi per il cinema, sul set di Morte di un matematico napoletano. Luca è uno che lavora con poco, mi aveva affascinato. Iniziò a balenarmi in testa la possibilità di lavorare con le luci, Laura Angiulli mi ha spinto a provare in teatro, cominciai nel 1995 con il suo L’uomo, la bestia e la virtù. Antonietta De Lillo mi incoraggiò nel cinema: il primo film a cui ho lavorato da direttore della fotografia fu il suo I racconti di Vittoria.

Ero entrato in una grande crisi. Avevo iniziato a fotografare pensando che avrei portato avanti i miei progetti, invece mi ritrovavo in una situazione di lavoro commerciale che non mi soddisfaceva più. A distanza di tempo ho recuperato il mio rapporto con la ricerca fotografica. Espongo poco, non sono un presenzialista. È dal 2016 che non faccio mostre. Il prossimo febbraio interrompo questa lunga pausa con una personale curata da Maria Savarese presso la Fondazione Mannaiuolo al Blu di Prussia di Napoli.

Nella tua poetica il nero è un elemento fondante, come mai?

Il nero è stato ed è il mio momento di ricerca privilegiato; il teatro, inteso come scatola nera, è come la camera oscura. Tutto con la luce deve e può succedere. Il teatro è uno dei luoghi dove vai a scrivere con la luce. Il nero continua a essere presente nella mia ricerca. Quello che si vede e quello che si intravede, ma anche «quel che non si vede». Come diceva Antonio.