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Con interesse ho seguito l’annuncio, molto enfatizzato, dell’avvio a Siena di una rete europea per la preparazione pandemica. È stato presentato come un riconoscimento importante, ma a mio avviso merita una riflessione più attenta. Dietro la retorica dell’innovazione si muove una realtà ben più complessa.
Il progetto è una rete diffusa: se la ricerca parte formalmente dall’Italia, gli snodi fondamentali – sperimentazione e produzione – restano saldamente ancorati in altri Paesi europei. Difficile parlare di un vero baricentro italiano. Il coordinamento senese è affidato a una figura scientifica di alto profilo, ma che rappresenta un modello ormai consolidato e fortemente legato all’industria farmaceutica globale. Un’impostazione, questa, che non risponde alla domanda crescente di visione pubblica, indipendente e trasparente in campo sanitario.
L’esperienza del Covid ha mostrato che i vaccini sono fondamentali, ma non sufficienti: serve un sistema sanitario europeo più equo, integrato e autonomo. In questo contesto, il ruolo dell’Italia appare più simbolico che sostanziale, utile forse a riequilibrare l’immagine di una governance scientifica ancora fortemente centrata su Parigi e Berlino.
La domanda allora è: chi può davvero essere all’altezza della sfida? Non una singola personalità. Servono soggetti collettivi. L’Università di Siena, se saprà assumere un ruolo culturale e politico, e non solo tecnico. Qualche realtà professionale e sanitaria del territorio, ammesso che riesca a strutturarsi con autonomia e spirito critico. Una nuova generazione di amministratori capaci di pensare Siena non come periferia, ma come nodo attivo di una strategia europea. E infine, una città che esca dal proprio isolamento e si confronti, da pari a pari, con altre realtà simili nel continente.
A oggi, però, questi soggetti non si vedono. Le condizioni per un confronto aperto esistono, ma restano frammentarie. Sarebbe utile, prima di tutto, riconoscere questo vuoto.