Mentre si celebra il cosiddetto record di occupati, i salari reali diminuiscono. Un paradosso spiegabile solo dalla natura del lavoro: intermittente, ricattabile. La curva salariale viene abbassata non solo dai contratti al ribasso, ma anche dalla capacità di tenere il lavoro sotto ricatto, attraverso precarietà, delocalizzazioni, licenziamenti. Per distruggere il lavoro senza incontrare resistenza, è necessario che il lavoratore non concepisca altra alternativa se non quella di “cercare un altro lavoro”, magari più precario e povero. Fame di salario per accettare qualsiasi condizione, e condizioni di lavoro per impedire la difesa del salario.

Alla ex Gkn, quando non sono riusciti a licenziarci, ci hanno tolto il salario. E, infine, hanno completato i licenziamenti. Abbiamo subito tre procedure di licenziamento in 3 anni. Le prime 2 sono state sconfitte, dichiarate illegittime dal Tribunale del Lavoro. Dopo la seconda, l’azienda ha smesso di pagarci gli stipendi, senza nemmeno richiedere ammortizzatori sociali. Nonostante numerose sentenze del Tribunale ci dessero ragione, siamo rimasti 15 mesi senza reddito, da gennaio 2024 a marzo 2025. Molti sono stati costretti a licenziarsi per stenti. Infine, i 120 lavoratori rimasti sono stati licenziati tutti dal 1° aprile con la terza procedura.

La vicenda non è finita. Non lo sarà finché non sarà pagato fino all’ultimo euro dovuto ai lavoratori. L’idea che per indurre al licenziamento sia sufficiente “sospendere il salario” costituisce un precedente gravissimo. L’azienda, ora in liquidazione, ha accumulato un debito che si aggira probabilmente intorno ai 18 milioni di euro, in buona parte verso i dipendenti. Il debito, così pare, sarebbe ripianato da un soggetto terzo – rigorosamente anonimo – che inietterebbe “liquidità” nella liquidazione: un benefattore che paga debiti altrui o qualcuno che trova beneficio nell’investire 18 milioni per liquidarci?

Il paradosso è che il piano industriale della cooperativa GFF, promossa dai lavoratori del Collettivo di Fabbrica e dalla Società Operaia di Mutuo Soccorso Insorgiamo, necessita invece di 12 milioni di euro per ricreare inizialmente almeno 100 posti di lavoro. Siamo quindi al paradosso di una fabbrica senza piano industriale e di operai licenziati che invece hanno un piano industriale.

Il legittimo sospetto è che il vero business non fosse nel far ripartire la fabbrica, ma nel trasformarla in un guscio vuoto, in un immobile oggetto di potenziale speculazione. In Italia, dal 2000 al 2023, gli investimenti immobiliari hanno rappresentato il 22per cento del totale, a fronte di un crollo degli investimenti industriali dal 30 per cento al 18 per cento. La deindustrializzazione alimenta affari predatori: come le carcasse attirano gli avvoltoi, si genera il business della scomposizione delle fabbriche in asset finanziari e immobiliari.

Abbiamo lottato e ottenuto una legge regionale che permette alla Regione Toscana di creare un consorzio industriale pubblico capace di rilevare l’area, per metterla a disposizione dei piani di reindustrializzazione: uno strumento deterrente contro chiunque voglia entrare nelle crisi industriali per uscirne con un asset immobiliare in mano.

Ma non finisce qui. La ex Gkn è la ex Fiat di Firenze, un pezzo di quell’automotive italiano che dal 1990 ha perso almeno 220.000 posti di lavoro a fronte di una spesa pubblica complessiva di circa 35 miliardi di euro (in pratica 130.000 euro pubblici per ogni posto di lavoro perso). ​Siamo inoltre a 23 mesi consecutivi di calo tendenziale della produzione industriale (- 3,5 per cento nel 2024 con una perdita stimata di 42 miliardi di euro). Una serie statistica così non accade se non hai alle spalle almeno un decennio di disastri. La retorica dei capitani coraggiosi e dei cavalieri bianchi cade così, in un pozzo di immobilismo e incompetenza.

Capiamo che in questo contesto l’idea di una reindustrializzazione concepita da una lotta, da una comunità consapevole, competenze solidali che l’università pubblica non valorizza martoriata dai tagli, sia un vero e proprio dito nell’occhio. Inoltre, ripartiremmo da produzioni ecologicamente avanzate – pannelli fotovoltaici e cargobike – proprio mentre il paese va convinto della riconversione bellica dell’industria. E con una fabbrica socialmente integrata: intervento pubblico, cooperazione, mutualismo prevalente, legame col territorio e le sue lotte: lavoro come riscatto, non ricatto.

I licenziamenti sono arrivati, il Collettivo non si è sciolto, il presidio sociale continua. Siamo in attesa che il consorzio industriale pubblico batta il colpo decisivo, e nel frattempo abbiamo rilanciato l’azionariato popolare a 2 milioni di euro (per partecipare: insorgiamo.org).

La nostra, però, rimane una lotta complicatissima: contro il tempo e contro questo tempo. Siamo l’alternativa che non è contemplata, il calabrone che non dovrebbe volare. E che, nonostante tutto, vola. Facendo paura. A chi ha qualcosa da guadagnare dallo status quo. Non a noi, che – come ripete sempre un collega al presidio – “paura e soldi, mai avuti”.

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