Per comprendere da che presupposto muove La Grecia Biografia di una nazione moderna di Roderick Beaton (Einaudi «La Biblioteca», traduzione di Daniela Salusso, pp. XXII-482, euro 35,00) non bisogna immaginare l’autore assorto davanti a un quadro ottocentesco che rievoca, in qualche museo europeo, l’assedio di Missolungi. È necessario pensarlo, invece, mentre si barcamena tra i carrarmati e i cecchini appostati sui tetti dell’Atene dei primi anni settanta. All’ombra della dittatura dei colonnelli, quando era ancora uno studente, Beaton coltiva – oltre alla passione per il mondo ellenofono che lo accompagnerà durante trent’anni nelle aule del King’s College di Londra, questa volta nel ruolo di Koraes Professor di Storia, lingua e letteratura greca e bizantina – la fascinazione per quell’insieme di idee e aspirazioni che ha generato la coscienza collettiva della nazione greca. È infatti al di là degli eventi, dei discorsi o delle azioni dei leader che, secondo l’autore, va cercato il senso di tale consapevolezza, attraverso la storia della percezione che un popolo ha di sé e del suo posto nel mondo.
Da qui nasce anche l’approccio biografico che Beaton sceglie di utilizzare. La Grecia non rappresenta una semplice entità geografica e politica e meno che mai un sogno impregnato di nostalgie romantiche. La Grecia è un corpo, una persona vivente, di cui tracciare l’evoluzione dalla nascita senza tuttavia siglarne il necrologio. Un approccio che può forse irritare certo conformismo accademico ma che, sul piano divulgativo, si rivela particolarmente riuscito. Non tanto perché Beaton rinunci al rigore della narrazione storica quanto perché la veste di biografo gli consente di approfondire e sviscerare gli aspetti più intimi (e talvolta più scomodi) del percorso del popolo greco.
La densa introduzione che precede i dodici capitoli – i quali riflettono nei titoli l’impostazione biografica (I primi passi, Ideali e delusioni della giovinezza, Il servizio militare, L’età adulta e l’ingresso in Europa, Una crisi di mezza età?…) inizia con una domanda apparentemente banale che innesca però un’analisi utile a dissipare ambiguità e manipolazioni identitarie. Chi sono i greci? L’autore ci ricorda che si tratta di una questione che ha agitato gli intellettuali fin da quando studiosi e viaggiatori del Rinascimento rivelarono all’Europa occidentale le conquiste letterarie, filosofiche e scientifiche della civiltà fiorita, fra tremila e duemila anni fa, in quell’angolo di terra bagnato dal mar Egeo. La domanda continua a essere attuale, dato che la cultura europea (o occidentale) contemporanea dichiara di essere l’erede – nelle arti, nelle scienze e nelle discipline politico-sociali – dell’antica civiltà «greca». Una familiarità che gli stessi greci sentono con i loro più antichi antenati. Malgrado solo la genetica potrà dimostrare in che misura coloro che oggi parlano la lingua greca (una popolazione di quindici milioni di persone distribuita tra Grecia e Cipro e che include anche la diaspora) condividano il Dna con i fondatori della civiltà classica, a contare non è ovviamente l’ascendenza biologica ma quella culturale.
Nel 1963 fu il premio Nobel Giorgos Seferis a precisare che la «parentela» con gli antichi non è un’ideologia ma un’affinità profonda, che germoglia nel paesaggio e nel linguaggio con cui gli esseri umani si sono rapportati a esso nel corso del tempo. Ed è questa vicinanza a conferire ardore alle richieste di restituzione dei Marmi del Partenone, sottratti da Lord Elgin e conservati dal 1817 al British Museum. Le celebri sculture di Fidia, nelle memorabili parole dell’attrice, cantante e ministra della cultura Melina Mercouri, divengono «il nostro orgoglio (…) le nostre aspirazioni e il nostro nome (…). L’essenza della grecità». Tuttavia, questo sentimento non è innato. Comprendere come si sia formato e poi consolidato aiuta a chiarire il processo di trasformazione della Grecia – che, a dispetto dell’immaginario comune, non è affatto una propaggine della Grecia antica – in un paese moderno. Per molti secoli, questa prossimità – essenzialmente basata sulla lingua – non è esistita. A questo proposito Beaton sottolinea che neppure i Greci si chiamavano così in quanto i termini Graecus e Graecia derivano dal latino e sono legati alla conquista di un vasto settore della Grecia da parte di Roma nel II secolo a.C. Gli antichi Greci si chiamavano Elleni e abitavano l’Ellade. Nel IV secolo d.C. le popolazioni dell’entroterra del Mediterraneo orientale che parlavano e scrivevano in greco vivevano da centinaia di anni sotto il dominio romano. Quando il Cristianesimo fu adottato quale religione ufficiale dell’impero, il termine Elleni venne riservato ai pagani, divenendo poi nel Settecento un lemma antiquato. Solo nel 1822, durante la prima assemblea del governo provvisorio greco, si decise di far rivivere l’uso dei nomi antichi: Elleni sarebbero stati i cittadini del nuovo stato che lottava per l’indipendenza ed Ellade lo Stato stesso.
Un altro malinteso citato dall’autore è quello che lascerebbe supporre «l’anzianità» di Atene quale capitale, a causa della sua superiorità tra le città-stato greche. Ebbene, seppur i templi dell’Acropoli abbiano rappresentato a lungo il simbolo della Grecia stessa, Atene diventò capitale soltanto il 13 dicembre del 1834. Oggi per le sue strade è abituale sentir chiamare a voce alta le persone: Odisseo! Socrate! Penelope! Calliope! ma fu solo intorno al 1790 che i nomi pagani furono ripristinati. Per più di un millennio e mezzo, infatti, i figli di genitori greco-ortodossi vennero battezzati con i nomi dei Santi del calendario della Chiesa.
Benché goda di meno prestigio, perlomeno nell’Europa occidentale, la nazione greca ha un altro celebre antenato ovvero la civiltà che dal XIX secolo è nota come bizantina, espressione anch’essa problematica in quanto i successori di Costantino, la cui lingua ufficiale era il greco, si definivano semplicemente Romani (Romei o Romaioi), poiché dal punto di vista politico il territorio al quale appartenevano era la continuazione dell’impero romano d’Oriente. Fu grazie ai copisti, agli uomini e ad alcune donne di cultura bizantina che la letteratura e gran parte della scienza dell’Antichità greca, ci sono state trasmesse a partire dal XIV secolo. Per questo motivo Bisanzio esercitò una forte influenza sulla società anche dopo la caduta del 1453.
Un’altra ragione del peso dell’eredità culturale bizantina era la continuità della Chiesa ortodossa che perdurò anche durante i secoli del dominio turco ottomano. Sulla doppia identità di Elleno / Romios che rappresenta da una parte la civiltà dell’Europa occidentale, dall’altra l’intimità dei greci con forme di sapere tradizionale più legate ai Balcani e al Medio Oriente, si basano sia la ricchezza culturale che le ferite e i conflitti che attraversano ancor oggi il paese dell’Est Europa. Quello offerto da Beaton non è dunque il solito viaggio alla scoperta delle radici «classiche» su cui abbiamo scelto di piantare le nostre certezze, ma un percorso che ci invita a riflettere sulla costruzione di un’identità fluida e mutevole, indissolubilmente legata agli avvenimenti storici e politici del Vecchio Continente e dell’area mediterranea. E che non smette di interrogarci quando si tratta di analizzare il ruolo della Grecia nell’Europa del terzo millennio. Dalla scampata Grexit all’accoglienza dei migranti, fino alla battaglia – condotta dai recenti governi più per opportunismo economico che per poetica passione – per il rimpatrio dei fregi di Fidia.