Lo aveva già detto. In seguito a quella contestatissima definizione di “il presidente del consiglio” che aveva indignato tutte le donne d’Italia, che certo non potevano rinnegare la rivoluzione semantica e linguistica appena conquistata. Lei aveva risposto: chiamatemi come volete, chiamatemi pure Giorgia. E ha di nuovo spiazzato tutti invitando a scrivere Giorgia nientemeno che sulla scheda delle elezioni europee di giugno. Ma non come hanno detto molti commentatori perché così, forzando al plebiscito, comincia a far passare nell’opinione pubblica il premierato – quindi per puro calcolo politico – ma perché con il suo nome ripropone la sua particolare, unica leadership. Giorgia, nome di donna. Che è tutt’uno con il suo popolo. Perché la strana coppia donna-popolo è la valenza simbolica di Giorgia Meloni. Lo è stata sin dall’inizio, quando ha pianificato la sua ascesa, con quel refrain inciso nella pietra: sono una donna sono una madre sono cristiana. Mentre noi femministe ci sfiancavamo a dosare e calibrare differenza e parità, chiedendoci per quale mistero divino per le donne di destra era più facile accedere al potere, e mentre quelle faticosamente arrivate nelle istituzioni dovevano ogni giorno affrontare le umilianti forche caudine delle cooptazioni e degli sgambetti maschili, Lei tornava semplicemente alle origini, all’archetipo femminile. Niente mimetizzazioni nel maschile, niente mortificanti quote rosa. Sono una donna, non vi basta?
Ma quali potevano essere i modelli di Giorgia? Non certo Margaret Thatcher, asessuata lady di ferro, non certo Angela Merkel, per tutti solo Mutti, mamma. E nemmeno la liberal Hillary Clinton, così misurata, perfetta, inclusiva ma non amata dalle sue simili. Sarà una suggestione, ma nel Novecento c’è stata solo un’altra figura politica femminile che si è presentata legata indissolubilmente al suo popolo, Evita Perón. Come Giorgia era una underdog, e aveva saputo interpretare un populismo originale, quello argentino degli anni Quaranta e Cinquanta. Giovane attrice, nel Generalissimo aveva trovato un protettore, e lo aveva sposato. Si intestò la rivoluzione peronista, dandogli forza e contenuti personali. Nel 1947 aveva varato la Ley de sufragio femenino, meglio conosciuta come Ley de Evita. Ma non le bastava: voleva anche la riforma della costituzione, e si fece molti nemici. Eva Maria Duarte detestava la povertà e l’ipocrisia della carità e della beneficenza, e insieme ai sindacati e alla sua Fundacion de Ayuda Social inventò il welfare argentino, sempre dalla parte dei suoi descamisados. Lavorava anche venti ore al giorno, ricevendo tutti, ascoltando tutti. Nella sua biografia aveva scritto: “Ho trovato in me un sentimento profondo che governa il mio spirito e la mia vita: l’indignazione di fronte all’ingiustizia, che vivo con dolorosa intensità”. Non resse il tradimento di Perón: non aveva mantenuto la promessa di nominarla vicepresidente. Così la descrive Iaia Caputo nel romanzo rivelatore La versione di Eva (Mondadori), durante uno dei suoi famosi comizi: “A questo punto del discorso, occupa lo schermo un primo piano di Evita. La sua voce, i suoi gesti sono quelli di sempre, di una donna imperiosa, indiscutibilmente autoritaria ma nondimeno passionale. Muove le mani con la sapienza di un’attrice e in modo regale, d’altra parte di sovrane, quando era diventata la star dei radiogrammi argentini, ne aveva interpretate molte: da Caterina di Russia a Maria Stuarda. Come non ipotizzare che una donna completamente priva di cultura ma affamata di conoscenza avesse scolpito la sua identità di leader politica sulle storie di quelle grandi regine?”. E un po’ regina lo è anche Giorgia, o meglio domina: cresciuta in una famiglia di donne, con un inner circle tutto femminile, superprotetta nel piccolo gruppo amicale di Colle Oppio, con cui ha condiviso quel postfascismo “democratico” entrato in parlamento con Almirante. A differenza di Evita, che al potere vero, istituzionale, non era riuscita ad arrivare, Giorgia è stata non solo sostenuta dal suo partito, ma è stata scelta come leader assoluta (a meno che un Perón qualsiasi non le sbarri la strada).
Se vogliamo continuare in questo gioco del confronto parallelo, Giorgia ed Evita nelle loro diversità temporali sono accomunate da un archetipo, l’eterno femminino, il salvifico “das Ewig Weibliche” del finale del Faust di Goethe. La forza della femminilità, l’anima di Jung. E lo sono anche nella loro immagine pubblica. Tutte e due bionde, tutte e due con uno stile preciso. Entrambe con le unghie laccate di rosso, gli abiti da sera di alta sartoria per Evita e i tailleur-pantalone Armani per Giorgia. Il famoso chignon per l’una e i capelli mossi da ragazza per l’altra. Tutte due giovani e devote alla causa. Tutte e due infaticabili. Evita era la voce e il cuore che mancavano a Perón, parlava a milioni di persone, ricambiata da una adorazione quasi pagana, diventata oggetto di culto popolare anche dopo la sua prematura morte. Da parte sua, nella rete internazionale che ha abilmente tessuto in questo anno e mezzo di governo, Giorgia viene festosamente accolta con baci e sorrisi dai suoi interlocutori maschi: sui palcoscenici della politica mondiale primeggia come donna. E nei comizi, anche quando fa la voce roca, sembra la sorella più grande che racconta una favola un po’ trucida alla sorellina più piccola. Entrambe iper femminili, rappresentano bene il paradosso della cultura patriarcale, che dall’Atene di Pericle alla Rivoluzione francese ha escluso le donne dal contratto sociale ma le ha lasciate secondo la cultura classica nell’empireo dei valori simbolici universali, rappresentati tutti dal corpo femminile: dalla pace alla giustizia, dalla speranza alla carità, perfino al legame con l’aldilà, interpretato dalla coppia madre-figlia Demetra e Kore. E la Vittoria, come la Rivoluzione, è sempre una donna dal seno scoperto che leva in alto la bandiera.
Il rapporto delle donne con il potere è sempre stato difficile e complicato, anche nella lunga marcia dell’emancipazione e della liberazione. E’ il nodo più opaco, e anche più divisivo. Su questo tema abbiamo sempre giocato in difesa. La denuncia dell’esclusione ha occupato la maggior parte dell’elaborazione teorica, inutile farne qui la cronologia. Uno per tutti, Il contratto sessuale di Carol Pateman, che rivela l’inganno sessista del contratto sociale, peraltro già intravisto da un uomo illuminato come John Stuart Mill. Accanto alla denuncia, prevale istintivamente il tirarsi fuori, non volerlo quel potere maledetto, in nome dei valori umani, sulla scia di Antigone e della sua ribellione al re Creonte, che le impedisce di seppellire il fratello. Antigone ne esce sconfitta, ma crede di aver indicato la strada giusta, e sicuramente è quella a cui le donne si sentono più vicine. I femminismi più radicali, come il transfemminismo e quello intersezionale, al rifiuto del potere infatti si appellano. Ma ora che il corpo a corpo con il potere maschile si è fatto inevitabilmente più stretto (nei parlamenti ci siamo…), ora che i conti si devono inevitabilmente fare e che il ballo va ballato, all’interno del femminismo primigenio – il pensiero della differenza sessuale – si è profilato un approccio più diretto al bersaglio, segnato con audacia da un titolo esplicito: Sovrane. L’autorità femminile al governo, della filosofa Annarosa Buttarelli. Esiste l’autorità femminile, c’è sempre stata, è che si è manifestata e si dovrebbe manifestare in modo diverso. Nella sua prefazione all’ultima edizione di questo libro fortunato, presentato e discusso in giro per l’Italia, quindi in grado di fare politica concreta, Buttarelli riparte dalla strana coppia donna-popolo. “Perché c’è un evento da non trascurare: la coincidenza tra l’emergere del protagonismo femminile e l’ascesa dei populismi, sia di destra che di sinistra”. La filosofa cita infatti non solo le varie Marie Le Pen, ma anche Ada Colau, diventata sindaca di Barcellona grazie a un movimento popolare apartitico, e come lei tante altre, salite dal basso. “Ci vogliono strumenti di lettura nuovi, altrimenti si rischia di liquidare le scelte femminili come derive populiste, oppure leggere specularmente il populismo come sconfitta delle donne”. Quante donne italiane, soprattutto delle forze progressiste, vedono infatti la vittoria di Giorgia Meloni come una sconfitta per loro? Dicono: non basta essere donna, l’esatto contrario del pensiero della premier.
Vediamo come l’autorità femminile si è esercita finora. In autonomia, però, non quella dipendente dal riconoscimento maschile, non quella delle cortigiane o delle mogli o amanti di, questo sarebbe un altro capitolo, peraltro già analizzato e molto apprezzato nei secoli, soprattutto dagli interessati uomini. Le donne hanno sempre fatto di necessità virtù: sfuggendo agli abissi delle persecuzioni, si sono rinchiuse negli spazi non occupati dagli uomini, negli interstizi praticabili, creando sì dei recinti, dei ghetti, ma spesso molto vitali. Come i conventi dove si poteva studiare e fare cultura, e dove le grandi mistiche insegnavano nuove forme di pensiero. Arrivando a essere molto importanti, come la badessa tedesca Ildegarda di Bingen, che trattava con Federico Barbarossa, Bernardo di Chiaravalle, quattro papi e innumerevoli vescovi. Gli istituti assistenziali non ecclesiastici, come quello delle Beghine – in una piazza di Amsterdam c’è un monumento a loro dedicato, a Parigi purtroppo in rue des Béguines Napoleone distrusse tutto: raccoglievano le donne povere, le ragazze madri con i loro bambini e, udite udite, facevano economia concreta che dava lavoro e vita a migliaia di donne. Teoria e pratica insieme, sorrette dalla relazione tra donne, perché da sempre esiste un’altra radice della sovranità e dell’autorità diversa da quella maschile. Come le relazioni intessute dalle Preziose nella Francia dell’Ancien Régime tra 1600 e 1700, le femmes savantes messe in ridicolo da Molière e ben raccontate da Benedetta Craveri nel suo La civiltà della conversazione (Adelphi). Qualche nome? Madame de la Fayette, Madame de Sevigné, Ninon de Laclos… Scrive Buttarelli: “Le Preziose conducono un grande esperimento politico, estetico e spirituale laico, spostando l’asse della sovranità verso un ideale collettivo di vita sociale guidato dall’esprit de société, in cui non contano potere, armi e denaro, ma la finezza del pensiero e del comportamento. E sono legate da un’amicizia femminile intesa come valore, non più come consolazione”. Anche Carla Lonzi è stata una grande ammiratrice delle Preziose, in fondo la separatezza del femminismo era nata nello stesso modo.
Ma le regine, quelle vere, come si comportavano con il loro popolo? La grande Elisabetta I d’Inghilterra si autoproclamò Regina Vergine anche se aveva avuto molte storie, pare perfino con il corsaro Francis Drake. La sua scelta simbolica voleva sottolineare il legame tra la sovranità e la libertà da ogni soggezione e potere. E non volle mai sposarsi: voglio essere moglie e madre del mio paese e non d’altri. Anche lei, donna e popolo. Storia particolare quella di Cristina di Svezia, contemporanea di Hobbes che aveva già scritto il suo Leviatano. Salì al trono bambina, e scelse a 26 anni quella che per lei era la “vera regalità”: scendere dal trono e diventare sovrana per sempre, senza governare. Abdicò dopo la pace di Westfalia e si trasferì a Roma dove fondò l’Accademia reale per lo studio della letteratura e della filosofia. La sua biblioteca personale nel Seicento era la più grande d’Europa. Altre hanno giocato per la loro lunga vita il ruolo istituzionale, come Caterina II imperatrice di Russia (che fece fuori anche il legittimo marito) e l’invece innamoratissima del suo prince Albert regina Vittoria, entrambe considerate “grandi” nei libri di storia. Ma i loro popoli probabilmente non ne erano del tutto convinti. E se si pensa alla monarchia parlamentare inglese, si sa che la regina Elisabetta II, anche se molto amata, ha regnato ma non governato. Alla fine del suo Sovrane, Annarosa Buttarelli ammette che la strana coppia donna-popolo fa disperare qualsiasi politologo, perché non si capisce da che parte prenderla. Considerarne le classi sociali o vedere il popolo come un unico enorme corpo? E le donne, dove stanno? Nel popolo anche loro, sembrerebbe. E allora come la mettiamo? E adesso che la democrazia rappresentativa è così screditata, che i partiti non godono più della fiducia dei loro elettori? Si potrebbe dire che anche il popolo regna ma non governa… Cominciamo allora a chiederci come rendere ripresentabile la democrazia davanti al popolo. Prima di tutto uscendo dal politicamente corretto, che ha creato solo nuovi conformismi e ricette universalistiche che non tengono conto delle differenze. Se abbiamo imparato qualcosa dalla sovranità femminile è che il suo segreto è proprio quel partire dalle relazioni e dalla vita quotidiana. Chissà se riuscisse a essere l’ultima profezia: donne e popolo che regnano e governano insieme.