Sembra passata un’era geologica da quando l’Italia discuteva di compromesso storico, tanto appaiono lontani quei tempi, più degli anni trascorsi. In sede storica ha trovato una solida argomentazione la tesi che proprio lì affondano le radici della morte di Aldo Moro. Vittima di un agguato brigatista, contro l’uomo politico italiano si coalizzarono gli ambienti della destra oltranzista e atlantica che lo volevano a tutti i costi fuori gioco. Di questo c’è anche esplicita evidenza nell’interferenza, durante i cinquantacinque giorni del sequestro, del criminologo statunitense, inviato dal Dipartimento di Stato, Steve Pieczenick, e degli ambienti più reazionari legati alla Chiesa cattolica che misero a disposizione dell’operazione, non si sa ancora attraverso quali canali, un elegante appartamento in una esclusiva palazzina in via Massimi, nei pressi del luogo del rapimento (la procura generale della Repubblica di Roma sta ancora indagando proprio su quello stabile, chissà che non ci siano prossimamente delle novità).
Sicuramente quella palazzina fu garage di prima accoglienza delle auto usate nell’agguato: ma questo fu provato solo molti anni dopo dalla Commissione parlamentare Moro-2, tanto vennero fatte male le indagini, o non fatte, nell’immediatezza. Lì, nel settembre, fu ospite Prospero Gallinari da una coppia di amici, lui legato professionalmente agli uffici della Nato di Bruxelles (i nomi dei due sono oggetto di indagine e qui non li facciamo, sebbene siano già comparsi altrove).
Uomo politico tra i più lucidi del dopoguerra, il “meno compromesso”, aveva scritto Pasolini, Aldo Moro era consapevole, dagli inizi degli anni Settanta, della impossibilità per la Democrazia cristiana di risolvere la crisi italiana, troppo frammentata, troppo succube della Confindustria dei falchi, e troppo poco amata dai ceti popolari, nonostante i consensi nelle urne.
Anche il segretario del Partito comunista, Enrico Berlinguer, dal canto suo, era consapevole che, nell’Italia del Patto atlantico, il Pci non avrebbe potuto governare neanche se avesse superato l’agognato 51% dei consensi elettorali: i poteri dominanti avrebbero scatenato una sanguinosa reazione. Una prospettiva che gli sembrò più chiara dopo il golpe cileno, quando cominciò a circolare la domanda “chi sarà l’Allende italiano?”: il segretario comunista condensò la sua storica riflessione in tre articoli scritti per “Rinascita” nell’ottobre del 1973.
Si incontrarono così due visioni, in un’Italia profondamente in difficoltà, minacciosamente circondata sulla sponda mediterranea da Spagna, Portogallo e Grecia, tre dittature fasciste. Chissà cosa avrebbe portato il compromesso storico se fosse stato realizzato. Per molti ancora oggi sarebbe stato l’anticamera della dissoluzione comunista. Difficile dire cosa ne sarebbe stato, senza cadere nel ridicolo morettiano, nel senso di Nanni (Il sol dell’avvenire), di riscrivere la storia sulla base di un “pensiero stupendo”. Come che sia, nelle intenzioni avrebbe significato la fine dell’isolamento comunista dall’area di governo, ma avrebbe anche certificato la fine della centralità democristiana. Dunque sarebbe stato una rottura dell’ordine politico. Di sicuro non avrebbe avuto nulla a che vedere con la costruzione di una duratura e strutturale alleanza. Perché il comune problema dei due uomini politici, che avevano progetti diversi e una profonda diversità di prospettiva, era la destra.
Moro sapeva che i fascisti non erano solo fuori dalla Dc, li conosceva a uno a uno quelli del suo partito, sapeva che occorreva isolarli: se avessero avuto spazi di manovra sarebbero stati pericolosissimi per la tenuta democratica. Aveva spiegato al congresso della Dc del giugno ’73, con quel modo tormentato di chi vede i movimenti della storia, che non c’erano altre strade: “La riaffermata impossibilità di un’alternativa, sia di avvicinamento, sia di avvicendamento (con il Pci, ndr) induce a definire il sistema politico italiano una democrazia difficile, un sistema senza pendolarità (…). Non noi, con la nostra volontà, ma la storia stessa delle cose, i movimenti reali dello spirito umano, potranno forse, in tempi imprevedibili, modificare questa situazione. La peculiarità della situazione italiana impone alla Dc di essere ‘alternativa a se stessa’”.
Nei sotterranei della Democrazia cristiana le forze della reazione sono in gran movimento in quei mesi, c’è trambusto e confusione, ma si nota il distacco di Aldo Moro che si muove nel suo partito con insolita energia, inseguendo le sue visioni: era giunto il momento di dare seguito alla “strategia dell’attenzione nei confronti del Partito comunista”, di cui aveva parlato in quel suo lungo intervento alla direzione della Dc del 21 febbraio 1969.
Moro e Berlinguer iniziarono a incontrarsi, con una certa regolarità, nel dicembre del ’71, secondo la testimonianza del dirigente comunista Luciano Barca. Presero confidenza e analizzarono ogni angolo della situazione italiana, anche i movimenti delle forze meno visibili. Giunsero così a elaborare un piano per impedire una saldatura tra il centro e la destra, pianificando una fase di collaborazione tra la Dc e il Pci, che desse fiato a un blocco politico e sociale riformista, che avrebbe poi espresso una sua dialettica politica ma avendo prima messo fuori gioco le forze eversive dello stragismo e del golpismo in salsa italiana, quelle che il Movimento sociale di Almirante non ripudierà mai.
Ovvio che quel pensiero politico, il compromesso storico – che fosse una trappola della Dc e una furbata di Moro, oppure una coraggiosa operazione per far fuori la “fascisteria” che tanto spazio aveva avuto nel dopoguerra e nella concreta costruzione delle istituzioni repubblicane – ci sembri oggi così lontano. Forse anche perché venne fatto fallire, sotto i colpi di una cinica messa in scena avviata dal criminologo americano per simulare una trattativa, tesa in realtà a confondere i brigatisti. Ma soprattutto perché, dopo l’89, l’azione politica contro la destra ha subito una tale involuzione, così pallida, incerta e timida è stata la capacità di contrastare l’offensiva neoliberista di una destra postfascista, al punto che oggi ci ritroviamo una destra radicale al governo, imbottita di consensi, con scarse idee e molte lobby da soddisfare. Non sapremo mai se quel tentativo, dirottato il 9 di maggio del 1978, avrebbe cambiato l’Italia; di certo è un tempo politico davvero lontano.