Dialogano, ma per dire una il contrario dell’altra. A sera l’ultima consultazione della presidente del Consiglio dura il doppio delle altre e uscendo dopo due ore la segretaria del Pd Elly Schlein racconta di aver alzato un muro davanti alle proposte di Giorgia Meloni. Le ha detto anche che la modifica della forma di governo «non è una priorità del paese» e che le cose più urgenti sono altre: sanità, lavoro, scuola, ambiente. Persino nel capitolo riforme bisognerebbe guardare altrove, cominciare con la riforma elettorale e finire con quella dei partiti, comunque niente elezione diretta.

Giorgia Meloni

L’ipotesi del suffragio universale sul premier è quella che ha ricevuto una maggiore apertura. Sulla bicamerale il dibattito è aperto
Né del presidente della Repubblica né del presidente del Consiglio, secondo la formula della «doppia busta» che Meloni continua a offrire alle opposizioni, solo perché così potrà dire di aver scelto quella che almeno un pezzo dell’opposizione ha accettato. Si tratta di Renzi e Calenda, naturalmente, che insistono con il «sindaco di Italia». Soluzione peggiore, perché otterrebbe il risultato opposto di quello che contrabbandano: metterebbe in mora il capo dello Stato e farebbe del parlamento l’ostaggio del premier. Altro che sfiducia costruttiva.

MA È PROPRIO LÌ che il circo delle riforme costituzionali messo su da Meloni con scenografia degna delle consultazioni quelle vere, per la formazione del governo, va a parare. E l’umore delle opposizioni – Renzi e Calenda esclusi – volge al brutto, prevale l’idea che Meloni non si fermerà, anche sapendo di partire senza i numeri sufficienti per evitare quel referendum costituzionale che due volte su tre ha affossato i piani dei governi. La presidente del Consiglio lo conferma concedendosi ai giornalisti, fatto raro, a fine giornata. Per dire due cose: che il governo è unito e le opposizioni sono divise e che lei andrà avanti «per rispettare il mandato degli elettori». Dopo un altro giro (spazio anche agli enti locali e alle parti sociali) tutti si aspettano che il disegno di legge sul premierato («assoluto», diceva Leopoldo Elia) arriverà effettivamente entro l’estate.

È CHIARO ADESSO che la presidente del Consiglio tiene tantissimo a mettersi al centro del progetto riformatore. Secondo una tradizione che si potrebbe dire gollista, non fosse che Renzi aveva fatto lo stesso (andandosi a schiantare) nel 2016. Qui sta la trappola delle consultazioni di governo (con palazzo Chigi che occupa la camera come mai si è visto) nella quale tutte le opposizioni sono cadute. Con Schlein, trattandosi della prima volta, parte anche la battaglia mediatica: la segretaria anticipa le sue posizioni al Tg3 mentre Meloni la sta aspettando, Meloni fa uscire la sua replica mentre il confronto tra le due è ancora in corso. «Perché non la monarchia illuminata?», raccontano che la segretaria Pd abbia a un certo punto risposto alle acrobazie istituzionali della premier.

«Buonasera, vedo che siete una delegazione contenuta», ha invece detto Meloni accogliendo a metà pomeriggio i due rappresentanti di + Europa, Della Vedova e Magi. Che ha replicato: «Siete voi che siete tantissimi». Undici da quel lato del tavolo, tra ministri, sottosegretarie consiglieri, e altri collaboratori del governo sedevano in seconda fila, ma a parlare è quasi solo Meloni. Il suo manifesto programmatico la presidente del Consiglio lo squaderna prolisso a beneficio del primo ospite, «il presidente Conte», con il quale la cordialità è quasi ostentata: «Negli incontri internazionali si è reso conto come me che gli interlocutori si chiedono quanto durerà il governo italiano di turno».

Nell’introduzione Meloni sottolinea due punti. Che l’instabilità dei governi italiani è «paradossalmente peggiorata nella seconda Repubblica», cioè quella che si conta dall’introduzione delle leggi elettorali maggioritarie – elemento sul quale però non c’è riflessione se non la proposta di insistere. E che il verticismo, una forma quale che sia di elezione diretta, rappresenterebbe un antidoto alla disaffezione degli elettori, cioè all’astensionismo. Che però è massimo, neanche su questo c’è una riflessione, quando si vota nelle regioni e nei comuni dove l’elezione diretta c’è già. Quando poi si tratta di fare la lista dei difetti da correggere nel sistema, anche Meloni come i 5 stelle infila il trasformismo, declinato però in un modo che è come un calcio sotto il tavolo a Salvini, seduto due sedie alla sua destra: «Basta con i partiti che cominciano la legislatura con degli alleati e la finiscono con alleanze diverse».

Testimonianza anche questa di quanto la rappresentazione di una maggioranza granitica nel confronto con l’opposizione non regga. Non a caso quando Schlein chiede «una moratoria» sull’Autonomia differenziata, Meloni non dice immediatamente di no e Salvini si alza e se ne va.

CI PENSA CONTE a pronunciare la parola «bicamerale» e raccontano che la presidente del Consiglio resti interdetta. Non si aspettava questa mossa, risponde che non si possono però allungare i tempi. Conte avrebbe offerto però disponibilità a «scadenze certe». Un’idea precisa di che tipo di commissione debba essere non ce l’ha. Tra gli altri partiti di opposizione si fa strada l’idea che l’abbia pensata per avere un po’ più di attenzione. Meloni però ha da tempo un candidato per guidare quella commissione, Marcello Pera, e forse adesso ci sta pensando.