L’INTERVISTA
di
Gregorio Moppi
Per mezzo secolo, nella seconda metà del Seicento, L’Orontea ha girato l’Italia. Un melodramma di grancelebrità poi sparito dalla circolazione. Come il nome del suo autore, l’aretino Antonio Cesti.
Protetto dai Medici, dall’imperatore, dal papa e dall’arciduca del Tirolo, non solo componeva per il teatro, ma sui palcoscenici ci saliva pure per cantare. Quando i superiori tentarono di frenarlo, svestì il saio dei minori conventuali per ricollocarsi in un ordine secolare, quello degli ospedalieri di S. Spirito, che gli permettesse di portare avanti la carriera. Morì d’improvviso nel 1669, a quarantasei anni, chissà se per sifilide o veleno. Le sue partiture gli sopravvissero con ottima fortuna per un paio di decenni prima di appisolarsi nelle biblioteche. Tuttora risvegliate di rado, e certo non dai grandi teatri d’opera italiani. Eccetto la Scala, che durante la sovrintendenza di Dominique Meyer si è resa conto che portare in scena l’antico melodramma negletto quello successivo a Monteverdi e precedente Vivaldi e Händel, tutti compositori ben sdoganati – paghi anche in termini di pubblico. Che magari al principio diffida, ma grazie al passaparola cresce da una replica all’altra. Perciò ecco ora L’Orontea,cinque recite dal 26 settembre al 5 ottobre dirette da uno specialista del barocco quale Giovanni Antonini (da quarant’anni alla guida dell’ensemble di strumenti originali Il Giardino Armonico, e ormai anche di orchestre “moderne” come laFilarmonica di Berlino e la London Symphony), regia Robert Carsen, protagonisti Stéphanie d’Oustrac, Mirco Palazzi, Luca Tittoto, Marianna Pizzolato, Sara Blanch e il controtenore Carlo Vistoli.
Maestro Antonini, vale la pena ridestare il melodramma del Seicento?
«Certo, perché può vivere bene nel presente. L’Orontea, per esempio, è un caleidoscopico gioco teatrale che mette a nudo, con leggerezza e disincanto, la volubilità degli esseri umani, potenti e umili, indifferentemente. Modellata sul senso e sul ritmo dei versi, la musica ha la scorrevolezza del teatro di prosa. E i personaggi, che parlano cantando, di tanto in tanto si trovano a intonare canzonette orecchiabili.
Poi c’è la questione della fluidità, così attuale».
L’opera barocca è fluida?
«Ci convivono serio e comico fluidificati. E c’è un’estrema mobilità di forme e d’azione, caratteristica precipua del melodramma secentesco a cui gli intellettuali dell’Arcadia vollero porre un freno ai primi del ’700. Fluidi sono anche i rapporti tra i personaggi – ora si amano, ora non più, ora tornano ad amarsi – come anche la partitura, che lascia libertà ampia agli esecutori».
Quindi va ricomposta in vista di ogni messinscena?
«Ogni volta bisogna rimetterci le mani, come nel jazz. La musica barocca pretende di essere rimodellata a seconda degli spazi dove è proposta, dei cantanti e degli strumentisti a disposizione. Così anche L’Orontea, partitura in bianco e nero che non ci dice quando suonare piano e quando forte né che orchestra utilizzare. Come colorarne di suono i singoli episodi lo stabiliamo nel corso delle prove. Perché nel barocco, di una stessa partitura, è l’esecuzione a far la differenza, più che nel resto della musica classica».
Per questo il barocco, oggi, ha sempre più tifosi?
«I giovani se ne appassionano per lo stesso motivo che fece avvicinare me, ragazzo, al flauto barocco, ossia il fascino per ciò che non è mainstream e la naturalezza, la fragilità di questo repertorio. Inoltre credo che oggi invogli l’aspetto epigrammatico: un concerto di Vivaldi dura pochi minuti. I maestri barocchi sono di poche parole. Scrivono composizioni della misura di un whatsapp. Rapide, lievi, icastiche».
Quando è cominciato questo revival?
«Ciò a cui assistiamo deriva da quella riscoperta degli strumenti e delle pratiche esecutive antiche giunta in Italia negli anni ’80, dopo che in Europa ci si lavorava da almeno un ventennio. A me, che sono milanese,questo mondo fu disvelato dalla rassegna “Musica e poesia a San Maurizio” che portò in città repertori sconosciuti suonati dai più autorevoli interpreti-studiosi. Evidentemente quell’affascinante new age dell’antico, nutrita allora da un desiderio di far comunità (dato che lì il pubblico era innumerevole), continua a dar frutti. Magari più nell’ascolto in rete che non dal vivo.
Pensiamo al fanatismo suscitato dai controtenori, assurti al rango di star.
Nei like surclassano tenori e soprani.
Li si ascolta addirittura alla Scala,cosa inimmaginabile fino a qualche tempo fa».
Come spiega che la musica barocca piace diffusamente, pur essendo stata concepita per una élite di ascoltatori?
«Prendiamo il melodramma, nato a Firenze nel 1600 come spettacolo di corte. Nel 1637, però, Venezia apre il primo teatro a pagamento: da quel momento il melodramma diviene prodotto commerciale, orientato ai gusti del pubblico pagante. Pertanto deve reinventarsi di continuo.
L’Orontea appartiene a questo filone.
Sebbene data la prima volta alla corte di Innsbruck nel 1656, segue il modello veneziano. Cesti, che per i palcoscenici lagunari aveva lavorato, sapeva come centrare un successo».
La trama dell’Orontea può essere interessante per il pubblico attuale?
«La società secentesca vi si osserva allo specchio. Ed è una società tanto arruffata quanto la nostra.
Comunque il tema dominante è ancor più universale: l’amore».
Un carosello di amori, no?
«Esatto. La regina Orontea non intende sposarsi, malgrado la ragion di Stato lo esiga. Cambia idea quando conosce il pittore Alidoro, bello come un Alain Delon, per cui prima o poi perdono la testa tutti, maschi e femmine – comprese le donne travestite da uomo e gli uomini che cantano con voce muliebre. Dunque si parla della volubilità dei sentimenti sperimentata da ciascuno di noi, in ogni tempo. Tradimenti e voltafaccia sono trattati con ironia, poiché anche chi si lamenta per quanto gli succede, sa che ogni cosa si risolverà al meglio.
In questo senso L’Orontea incarna il sempiterno spirito italico propenso alla teatralizzazione del quotidiano, allo strapparsi i capelli, ai piagnistei istrionici. Dove poi tutto si conclude a tarallucci e vino».