Credo che il suggerimento di associare le opere dell’artista Adrian Paci (di cui abbiamo inaugurato di recente a Roma la mostra “No Man is a Island”), alla luce intensamente politica ed empatica di una poesia che John Donne scrisse più di 400 anni fa sia una decisione soprattutto non conformista. Quando la curatrice Cristiana Perrella avanzò la proposta, io stesso ebbi un momento di esitazione.
Questo verso di Donne è diventato nel tempo così mainstream, e di conseguenza così distante dalla sua forza dirompente originaria, che dubitai potesse servire a sostenere una riflessione come quella motivata dal lavoro artistico di Paci. Mi riconciliai però con la proposta quando compresi che il verso “Nessun uomo è un’isola” dev’essere colto, qui, come grafia non tanto di un’evidenza condivisa (in realtà, molto lontana dall’esserlo), quanto di un pensiero divergente e profetico che deflagra. Perché il necessario compito di “disarmo” ideologico in vista di pervenire a quella «pace disarmata e disarmante» di cui parlava Papa Leone XIV nel discorso d’inizio del suo pontificato si gioca in particolare nel riconoscimento dei diritti umani fondamentali e della fraternità universale, e, in questo grande processo di trasformazione della coscienza, l’arte contemporanea è una valida alleata. Certamente la poesia di John Donne ha per cornice un’esplicita visione cristiana, che il titolo dell’intero libro in cui essa figura conferma in assoluto: «Devotions Upon Emergent Occasions».
Ma il suo carattere devoto non riduce, anzi amplifica, direi, la dimensione culturalmente contestataria illustrata dal motto “Nessun uomo è un’isola”. La poesia di Donne fu pubblicata per la prima volta nel 1624, nello stesso secolo, dunque, in cui apparvero i Sonetti di Shakespeare, La Città del Sole di Tommaso Campanella, il Don Chisciotte di Cervantes, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo, il Discorso sul metodo di Cartesio, il Leviatano di Thomas Hobbes, le Lettere Provinciali di Pascal.
Si inserisce dunque nel ribollio di un’inquietudine culturale e sociale per produrre nuove versioni del mondo, meglio compaginabili con le esigenze di libertà e di verità che l’Essere Umano porta iscritte nel suo cuore. Interessa qui sottolineare quanto la storia culturale permetta di cartografare i grandi interrogativi umani che ogni epoca affronta e, al tempo stesso, quanto ci faccia vedere il persistere metamorfosato della speranza (processo che sappiamo essere in corso, ma incompleto e ferito da drammatici arretramenti).
Devo dire che mi ha riempito di curiosità fin dal primo momento il percorso formativo di Adrian Paci, percorso che si potrebbe definire insolito, o solitario, nel campo della produzione artistica contemporanea, della quale egli è un riconosciuto creatore di riferimento. Nato a Scutari (Albania) nel 1969, Adrian Paci fa i suoi primi studi artistici a Tirana. Poi, la sorpresa è il suo venire in Italia per frequentare il corso di “Arte e Liturgia” presso l’Istituto Beato Angelico di Milano. E questa capacità di mettere in dialogo mondi e linguaggi diversi è ben manifesta nelle quattordici stazioni della Via crucis che Paci ha realizzato per la chiesa di San Bartolomeo a Milano, in parte seguendo e ricreando una metodologia che Pasolini aveva adottato nella sua filmografia: accostare la storia sacra con le sincroniche categorie narrative del presente, e accostare la storia profana con le diacroniche categorie che servono abitualmente a delineare i personaggi sacri. Questo movimento di dislocazione, certamente non immune da rischi, genera comunque un effetto politico destabilizzante, poiché ci dice che quel che abbiamo davanti agli occhi, che coloro sui quali pesa una dichiarazione di invisibilità civile (pensiamo agli immigrati, ai rifugiati, ai poveri, ai carcerati) rappresentano alla fine una storia anche sacra, di cui non ci prendiamo cura sufficientemente o che facciamo finta di non vedere.
All’opera di Paci è certamente possibile associare la poesia-manifesto di John Donne, qui riportata in una versione della poeta italiana Cristina Campo:
Nessun uomo è un’isola / completo in se stesso; / ogni uomo è un pezzo del continente, / una parte del tutto. // Se anche solo una nuvola / venisse lavata via dal mare, / l’Europa ne sarebbe diminuita, / come se le mancasse un promontorio, / come se venisse a mancare / una dimora di amici tuoi, / o la tua stessa casa. // La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, / perché io sono parte dell’umanità. // E dunque non chiedere mai / per chi suona la campana: / essa suona per te.