Fedele alla promessa di «non disturbare chi crea ricchezza» Giorgia Meloni, con il decreto del 1° maggio, inaugura una sorta di «politica dei redditi» a totale carico dello Stato. Non che non sia giusto tagliare qualche punto di prelievo a lavoratori dipendenti falcidiati dall’inflazione. Non è giusto che avvenga con l’ennesimo scostamento di bilancio, debito aggiuntivo che i contribuenti di oggi e di domani dovranno restituire con gli interessi. Non c’è alcun «tesoretto» da distribuire, come impropriamente sostiene Giorgia Meloni, piuttosto si apre una falla ulteriore nel bilancio pubblico e in quello dell’Inps, che peraltro sarebbe già in dissesto se non fosse sostenuto da un trasferimento statale di 17 miliardi all’anno.

La nostra presidente si guarda bene dal chiedere un contributo fiscale maggiore a chi ha di più. Sorvola accuratamente sulle aziende (alimentari, farmaceutiche…) che gonfiano i profitti speculando sui prezzi. Solleva le imprese dalla loro responsabilità dinanzi al peggioramento delle condizioni umane e materiali di milioni di lavoratori, giovani e donne. Vara un provvedimento che ha l’evidente scopo di depotenziare la lotta per il rinnovo dei contratti scaduti, a partire da quelli del pubblico impiego e del settore terziario. Scava un fossato tra i “non protetti” e fasce di reddito medio-basse, che temono di scivolare in giù nella scala sociale a causa dell’impennata dei prezzi. Fa una scelta precisa in funzione dei meno poveri, abbandonando gli ultimi al loro destino.

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Buona la prima. A Bologna c’è voglia di scioperoCon il decreto lavoro, dunque, il governo di destra mette qualche soldo in più in buste paga che non superano i 35 mila euro, ma al tempo stesso taglia drasticamente il fondo per i percettori del Rdc, destruttura ancora di più i rapporti di lavoro caratterizzati da precarietà, finti tirocini e praticantati non pagati, lavori a tempo pieno spacciati per lavori part-time, forme intollerabili di discriminazione e di asservimento. Un decreto che merita una risposta politica e sociale adeguata a contrastare il disegno politico, carico di rischi per la democrazia, che lo sottende.

La destra non crede nella società del benessere, nell’allargamento dei diritti e degli spazi di partecipazione. Ha in mente piuttosto una società opulenta che incorpora i vecchi miti della tradizione nazionalista, in cui domina una élite economica allargata, l’aristocrazia del 21° secolo (ricchi signori, imprenditori, manager, amministratori delegati, detentori di rendite e patrimoni, evasori che popolano il “bel mondo” ).

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Dopo il «decreto lavoro» la propaganda sui dati dell’occupazioneIn questo schema il lavoro autonomo – privilegiato rispetto al lavoro dipendente – fa da collante a rapporti sociali che seguono una precisa gerarchia. Chi parte da un certo livello di reddito sta dentro (insider). Chi è fuori resta escluso (outsider), al massimo può raccogliere le briciole, aspirare ai voucher o a contratti capestro di 4 euro all’ora. Il tavolo delle riforme istituzionali, finalizzato a proporre l’elezione diretta di un presidente “salvatore della Patria”, getta le basi di uno Stato neo-corporativo e autoritario, garante del nuovo ordine.

Lo Stato fiscale subentra allo Stato sociale. Il fisco resta un potente strumento di consenso e di regolazione. A questo servono i condoni, gli sconti fiscali, la flat tax, la fiscalizzazione fino al 60 per cento degli oneri sociali a favore di imprenditori che assumono giovani, la detassazione fino a 3 mila euro dei premi contrattati a livello aziendale (fringe benefit). Ma anche le mance, i bonus, gli incentivi su ogni cosa.

Denaro al posto di servizi sociali efficienti. I trattamenti fiscali speciali si estendono a nuove categorie e gruppi sociali rompendo ogni barriera tra pubblico e privato. Così, agli infermieri del Servizio sanitario nazionale, che hanno stipendi sotto il 40% della media europea, invece di rinnovare il contratto, viene consentito di svolgere attività in strutture private, con conseguenti e prevedibili ricadute negative sul funzionamento delle strutture pubbliche. E molti funzionari e dirigenti, con contratto a tempo indeterminato, trovano più conveniente optare per il lavoro autonomo e, quindi usufruire della tassazione (onnicomprensiva) del 15%. La ricerca del maggior guadagno possibile con la minore imposizione fiscale diventa la bussola con cui orientarsi nel mercato del lavoro.

La destra governa perché i ceti privilegiati hanno vinto «la guerra delle tasse» (titolo di un bel libro di Vincenzo Visco, edito da Laterza, che tutti dovrebbero leggere). Non esiste più progressività nè equità nel sistema. Il fisco funziona ormai come una «sartoria» in cui le lobby, di volta in volta, confezionano gli abiti su misura per i vari gruppi sociali. Con un debito che viaggia velocemente verso i tre mila miliardi si pone un problema oggettivo di sostenibilità e, allora, la sinistra dovrà trovarsi preparata. «La guerra delle tasse» non finisce qui.