A soli sei giorni da cruciali elezioni nazionali, un tribunale del lavoro della capitale del Bangladesh emette una sentenza politicamente pesantissima. Sei mesi di carcere per il premio Nobel per la pace e imprenditore Muhammad Yunus, e per altri 3 imputati. Rei di aver violato la legge sul lavoro per non aver istituito un fondo di welfare per i lavoratori della Grameen Telecom, una delle aziende create dal “banchiere dei poveri”, conosciuto per la promozione del microcredito con la Grameen Bank. I quattro sono liberi su cauzione, in attesa dell’appello. E si dichiarano innocenti.

«CHIEDO che il popolo del Bangladesh si esprima all’unisono contro l’ingiustizia e a favore della democrazia e dei diritti umani per tutti i nostri cittadini», ha dichiarato Yunus contestando il verdetto: «Come i miei avvocati hanno argomentato in modo convincente in tribunale, questo verdetto è contrario a tutti i precedenti legali e alla logica». Secondo quanto dichiarato alla Bbc da uno dei suoi avvocati, Abdullah al Mamun, «la sentenza è stata emessa in modo affrettato». Vero obiettivo, «danneggiare la sua reputazione internazionale». Anche la sezione sud-est asiatico di Amnesty International sottolinea «l’insolita rapidità con cui è stato portato a termine il processo contro Muhammad Yunus, in netto contrasto con i lenti progressi di altri casi giudiziari legati ai diritti del lavoro in Bangladesh». Inoltre, lo stesso ricorso a un procedimento penale per questioni amministrative sarebbe «un palese abuso» e «una forma di ritorsione politica per il suo lavoro e il suo dissenso»: la condanna di Yunus è «emblematica dello stato di crisi dei diritti umani in Bangladesh, dove le autorità hanno eroso le libertà e costretto i critici alla sottomissione».

Quello di Yunus è dunque solo il caso più emblematico della più generale repressione del dissenso nel Paese del sud-est asiatico guidato ininterrottamente dal 2009 dalla prima ministra Sheikh Hasina, leader della Lega Awami. Alla quale molti osservatori riconducono la torsione autoritaria in corso da anni e imputano l’uso di giudici e magistrati per obiettivi politici. Yunus e Hasina sono ai ferri corti almeno dal 2007, quando il primo ha fondato il partito Nagorik Shakti (Potere ai cittadini) con l’idea, poi accantonata, di presentarsi alle elezioni. Da allora, una sequela infinita di cause civili e penali. Ora la condanna. Emessa a ridosso delle elezioni politiche nazionali del 7 gennaio, ostinatamente volute dalla prima ministra Hasina, a dispetto delle richieste ripetute da parte del maggior partito di opposizione, il Bangladesh Nationalist Party, di istituire un governo di transizione.

QUALCUNO, a Dacca, legge il tempismo dei giudici proprio come un segnale lanciato da Sheikh Hasina, fuori e dentro il Paese: ogni cosa le è consentita. Anche far condannare, nei giorni in cui il Bangladesh è più sotto i riflettori, un personaggio come Yunus. Per il quale lo scorso agosto si erano mobilitate centinaia di personalità della politica e della cultura globali, incluso l’ex presidente degli Usa Barack Obama. Di persecuzione giudiziaria parla anche il Bangladesh Nationalist Party, che chiama al boicottaggio delle elezioni, dopo aver subito migliaia di arresti tra militanti, sostenitori, leadership. Per il segretario generale del partito, Mirza Fakhrul Islam Alamgir, in carcere da fine ottobre, l’appello è stato fissato al 9 gennaio. Subito dopo la tornata elettorale che vedrà trionfare Sheikh Hasina e la Lega Awami.