Settimana scorsa non abbiamo avuto solo il Festival di Sanremo ma anche quello degli utili delle banche italiane. Al primo posto Unicredit, che ha chiuso il 2023 con 8,6 miliardi, 88 per cento in più del 2022, seguita da Intesa, con 7,7 miliardi (+88 per cento), ma che corre per la vittoria del prossimo anno, dichiarando di essere pronta a sfondare il muro degli 8 miliardi, e da BancoBpm con 1,3 miliardi (+85 per cento); nella categoria «debuttanti» vince Mps che dopo 15 anni torna a pagare un dividendo.
Dividendi e buy back (pagamento agli azionisti sotto forma di riacquisto delle azioni proprie) sono stati una gara a parte: per quantità vince ancora Unicredit con 100 per cento di restituzione degli utili ai soci, contro il 92 per cento di Intesa e il 67 di BancoBpm; ma nella categoria qualità vince Intesa, con dividendi per 5,4 miliardi e 1,7 di buy back, contro dividendi per 3 miliardi di Unicredit, ma ben 5,6 di buy back, segno che alla certezza della cassa data dal dividendo in Unicredit si preferisce il sostegno al titolo in borsa con il buy back.
Numeri impressionanti, che segnalano come le banche italiane abbiano recuperato redditività ed efficienza, lasciandosi alle spalle un lungo periodo di sofferenze elevate, bassi margini di interesse, sportelli in eccesso, esuberi e coefficienti di capitale da incrementare che erano diventati sinonimo di banca. Ma da qui a immaginare che le banche siano diventate le Microsoft e la Apple d’Italia, ovvero i nostri campioni per redditività, capacità di generare cash flow e performance del titolo in borsa, ne passa.
I risultati di quest’anno sono in larga parte dovuti all’impennata del margine di interesse a seguito dei rialzi dei tassi della Bce. Basti pensare che nel 2023 il margine di interesse delle maggiori cinque banche italiane (Intesa, Unicredit, Mps, BancoBpm, Bper) era in media 51 per cento superiore a quello del 2018 ai tempi dei tassi negativi. L’aumento dei margini ha beneficato tutte le banche europee, ma meno delle nostre: 19 per cento in più per il campione delle 18 maggiori quotate (3 francesi, 3 spagnole, 2 tedesche, 2 inglesi, 4 scandinave, 2 austriache, e 2 del Benelux).
QUANTO DURA IL BOOM
Stando alle stime di consenso degli analisti (fonte Factset) il margine di interesse è destinato a ridursi di qui al 2025, ma il maggior impatto positivo sui bilanci delle banche italiane sembra destinato a durare: in crescita nel 2025 del 36 per cento al 2018, il triplo della media delle banche europee del campione. Una spiegazione è la maggiore concentrazione delle banche italiane nei prestiti alle famiglie (mutui, credito al consumo, cessione del quinto), dai margini più elevati rispetto all’attività con le imprese e ai servizi di banca di investimento, pur essendo meno rischiosi; oltre che da una minore concorrenza sui depositi. Un bene per gli azionisti delle banche, non altrettanto per il sostegno allo sviluppo del Paese.
I margini di interesse sono però solo una componente del conto economico. Se si guarda anche ai costi e alla redditività complessiva del capitale, appare una sostanziale differenza tra Intesa e Unicredit, da una parte, e Bpm, Bper e Mps dall’altra.
Si stima infatti che le prime due avranno quest’anno un rapporto medio tra costi e ricavi del 43 per cento, di gran lunga inferiore al 52 delle altre tre banche italiane, e al 51 del campione delle banche europee; stesso dicasi per la redditività sul capitale tangibile, pari a 15 per cento medio per le due nostre grandi banche, superiore all’11 delle altre tre, e al 13 medio nel resto d’Europa.
FUSIONI INEVITABILI
Ai fini della redditività e della valutazione in borsa la dimensione conta dunque perché permette economie di scala e un maggior potere di mercato: una chiara indicazione che la strada delle aggregazioni in un settore maturo come quello delle banche commerciali è inevitabile. Ottima notizia per il Tesoro, se vuole veramente uscire da Mps. Molto meglio sarebbe però che fusioni e acquisizioni fossero transfrontaliere, per evitare di creare ulteriori concentrazioni potenzialmente lesive degli interessi di cittadini e imprese, in Italia come negli altri paesi. Ma con i venti nazionalisti e populisti che soffiano in Europa, la concorrenza non sembra una priorità.
C’è però una discordanza tra la redditività attesa, che si attesta su valori elevati fino al 2025, e i generosi pagamenti promessi agli azionisti anche in futuro, e le note preoccupate che da più parti cominciano a emergere sul possibile aumento delle insolvenze dovuto al rallentamento economico e all’aumento dei tassi, e in particolare nel settore degli immobili commerciali (negozi, uffici, centri commerciali), che tipicamente si manifestano anche con due anni di ritardo rispetto al punto più basso del ciclo.
Quello degli immobili commerciali viene poi percepito come un problema prettamente americano, ma ormai dovremmo aver imparato che il rischio contagio è sempre possibile e qualche piccola piccola crepa la si comincia a vedere, come nel caso della banca svizzera Julius Baer che ha perso un quarto del proprio valore perché coinvolta nel dissesto del gruppo immobiliare austriaco Signa, o della Deutsche Pfandbriefbank il cui titolo si è dimezzato per gli accantonamenti nell’immobiliare. Quello delle insolvenze non è oggi un problema per le banche italiane, ma in un’ottica futura è ragionevole chiedersi se la generosa distribuzione degli utili anche negli anni a venire sia opportuna e l’implicito livello degli accantonamenti adeguato.
EFFETTO BTP
Come non bisogna dimenticare che le banche italiane detengono all’ultimo dato disponibile il 23 per cento del debito pubblico italiano, di cui 385 miliardi in titoli di stato: le aspettative del taglio dei tassi, con l’attrattiva dei guadagni in conto capitale, sostengono oggi la domanda di Btp (i cui prezzi si muovono inversamente ai rendimenti). Ma con la finanziaria per il prossimo anno e la crescita anemica è possibile che i nodi vengano al pettine.
L’aspetto che più dovrebbe temperare gli entusiasmi, tuttavia, è che una distribuzione degli utili così elevata è segno che le banche non hanno validi progetti in cui reinvestire gli utili e preferiscono così restituire il capitale agli azionisti. È tipico dei settori maturi e in declino: quelli in forte crescita, come per esempio le società tecnologiche, non pagano dividendi e quando cominciano a farlo, come Meta (ex Facebook) quest’anno, è perché la crescita attesa rallenta. Lo si vede dal multiplo a cui il mercato valuta gli utili attesi delle banche: quanto più elevato è il multiplo di una società, maggiori sono le aspettative di crescita.
Anche nell’anno dei record Intesa e Unicredit valgono mediamente in Borsa 6 volte gli utili attesi per quest’anno, in linea con la media Europea, e superiore al 5 medio di Bpm, Bper e Mps. Sono valori molto bassi, chiara evidenza di quanto scarse siano per il mercato le opportunità di investimento e le prospettive di crescita degli utili delle banche. Senza scomodare le società tecnologiche, basti infatti pensare che le società industriali e del settore sanitario in Europa valgono 21 volte gli utili attesi per il 2024, e 18 volte quelle che producono beni di consumo.
Dovrebbe quindi preoccupare che il sistema bancario preferisca restituire il capitale ai soci invece di reinvestire gli utili in progetti ad alta crescita, quando transazioni e prodotti finanziari, sistema dei pagamenti, credito, sono dematerializzate e digitali, e quindi esposte all’innovazione tecnologica, al fintech, e all’impiego dell’intelligenza artificiale. La regolamentazione di fatto costituisce una barriera contro la concorrenza diretta dei gruppi tecnologici, ma non c’è dubbio che già ora una parte significativa del valore aggiunto dell’attività bancaria vada alle società tecnologiche da cui le banche dipenderanno sempre di più per la propria attività, e agli intermediari non bancari.
Va bene brindare alla distribuzione degli utili, ma attenzione a non ubriacarsi: i postumi di una sbornia sono molto spiacevoli.