Molti scrittori coetanei di Franco Cordelli (1943) hanno fatto del rapporto esibito fra realtà e finzione il fulcro della scrittura narrativa; a seconda dei casi, la tensione fra i due poli ha prodotto autofiction (la definizione valga qui come genere inclusivo, in cui far rientrare anche altre categorie di semi-realismo fittivo), riscritture, metaletterarietà. L’energia dell’attrito tra fatti veri e vite immaginarie, provocato ad arte perché le scintille sprizzassero per stupirci come fuochi d’artificio, è stata incanalata nella forma del romanzo. Varie opere più o meno importanti (in Italia e non solo) pubblicate nei decenni a cavallo fra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo sono riconducibili a quel fulcro, attingono a quell’energia. Stento a chiamare ‘postmoderna’ questa vena, per le troppe implicazioni e compromissioni della parola, ormai quasi inutilizzabile – nel campo della letteratura contemporanea – senza mettere le mani avanti, con dubbio e cautela. Mi pare abbia più senso osservare che proprio quel semi-realismo, quell’autocertificazione di fittività metaletteraria sono stati la cinghia di trasmissione fra il Novecento e il Duemila, che ha prolungato nel contemporaneo un’idea di tradizione straniata e tuttavia riconoscibile nella complessità delle strutture, nell’imposizione di un regime autoriale, nello stile. L’esaurimento progressivo di quell’energia, anche nei libri degli scrittori che più l’avevano alimentata, disorienta perché lascia vuoto lo spazio in cui prima si collocavano opere e forme che avevamo imparato a considerare ‘classiche’ negli ultimi decenni. Di qui il senso di estraneità che può cogliere davanti alle classifiche o alle selezioni dei premi letterari; di qui anche la routine del critico che, quando non limita il giudizio a un consenso o a un rifiuto stagionali, deve comunque ricorrere agli usati parametri di valore, specialmente stilistici e strutturali, messi a punto nel e per il Novecento. (Parametri importanti, beninteso; ma potremo riconoscerne altri, che corrispondano a idee di scrittura e di funzione del discorso letterario nel presente?).
In questo quadro, Cordelli è un’eccezione; nella sua opera narrativa, la relazione fra esperienza della realtà e consapevolezza della scrittura è diversa da quella instaurata nei romanzi dei suoi coetanei, la lezione novecentesca vi è ricevuta senza maniere. Non c’è nessuna artefatta tensione, cioè, nessun adescamento del lettore nel labirinto della finzione, anche nei romanzi in cui i piani narrativi e le corrispondenze tra vita e letteratura sembrano più strette (come nel recente Una sostanza sottile, Einaudi 2016). Cordelli non tende a sovraccaricare l’architettura, o a ribadire gli elementi strutturali del testo, ma semmai – appunto – li assottiglia, ne fa emergere la sostanza, combinando due elementi: la diffidenza verso il tempo come forma del racconto e, di conseguenza, il credito concesso alla «visione». Una visione non certo fantastica, che consiste invece nella presenza di figure, condizioni, situazioni – poco importa che siano del tutto fittizie o biograficamente fondate – irrelate rispetto al tempo, cioè non necessitate da nessi causali e consequenziali, ma valide quasi liricamente per il senso che il narratore annette loro. Sono esempi perfetti di narrazione senza il tempo i testi brevi riuniti in Tao 48 (La nave di Teseo «Oceani», pp. 352, euro 20,00). La raccolta segue altri recenti consuntivi del lavoro di Cordelli, in particolare i due volumi Un mondo antico e Il mondo scintillante (2019) che comprendono gli articoli e i saggi scritti dal 2003 in poi, pubblicati da Edizioni Theoria, presso cui hanno visto la luce anche le riedizioni di romanzi come Procida e Guerre lontane.
Composti nell’arco di quarant’anni, gli scritti di Tao 48 non sono – come avverte la nota finale dell’autore – «né novelle né racconti», ma «commenti a foto, fatti di cronaca, slanci del cuore, freddi furori» molti dei quali nati su commissione e ora raccolti per «trasformare in un mosaico le tessere» a disposizione. Dal più lungo, Corviale, scritto per Giulio Einaudi, è derivato Un inchino a terra; in molti altri si scorgono riflessi di personaggi e situazioni che richiamano altre opere dell’autore. Dovevano essere settanta, sono diventati prima quarantotto, poi trentasei e infine trentadue: ma la numerazione dell’indice arriva ancora a 48 (da qui il titolo), accettando le lacune, i vuoti: «alcune tessere non c’erano più» avverte Cordelli «non è Roma una città in rovina?».
«Come vedono la sempre vituperata e sempre amata Roma gli scrittori dei miei anni che non vi sono nati o non vi abitano?» si chiede il narratore in Santa Maria degli Angeli. È proprio Roma il tessuto o l’occasione che lega le trentadue prose, ciascuna delle quali è intitolata a un luogo nella mappa esistenziale e topografica della città che Cordelli conosce e ama attraversare come pochi altri. Del resto, se non è il tempo, deve essere per forza lo spazio a ispirare il senso e l’unità del libro. Il problema «non è il tempo, il problema è lo spazio. Non: quando cadrà la freccia? Ma: dove essa cadrà?», si legge all’inizio di Villa Betania. Lo spazio però non è teatro di azioni ma, come si diceva, di visioni e apparizioni. Queste due parole sono segnali ricorrenti in Tao 48, nel primo testo, Paradiso («Vi fu la scintilla di un’altra apparizione, dalla stessa porta laterale») e nei successivi: «ma ancor più preferiva ogni apparizione che avesse un aspetto per così dire verticale»; «le visioni sono beffarde come i racconti»; «Erano già tre o quattro giorni che aveva queste visioni, sempre notturne». Il racconto, come sempre in Cordelli, «diventa una specie di evocazione, una negazione del racconto: e insomma da linea che forma un angolo di novanta gradi diventa chiaramente un asse a centotrenta, come in una croce» (Porta Pia). Le cose accadono all’improvviso, suggerendo la possibilità di un naturale trapasso dalla vita alla letteratura, se non proprio la loro fondamentale identità, senza bisogno di artifici: «D’un tratto, come in un romanzo russo, ai miei personaggi tutto accade d’un tratto»; «All’improvviso, mi ha tagliato la strada».
Le spiegazioni e gli esiti delle vicende restano impliciti, in una zona che sta tra l’esperienza empirica dell’autore (ciò che è realmente accaduto, i veri fatti di cui si riconoscono le tracce: come quando racconta di quella volta che un attore lo sfidò all’«ultimo duello pubblicamente dichiarato in Italia a mezzo stampa»; o come quando allude a delitti famosi) e il margine tra una prosa e l’altra. Una zona in cui lo scrittore non ha alcun interesse a guidarci come turisti della non fiction, confortato in questo dalla costitutiva laconicità della forma breve. È una questione di eleganza, di sprezzatura (un tratto che, ancora una volta, distingue la scrittura di Cordelli). Credo che in fondo si riferisca a questo la metafora sul gioco d’azzardo elaborata nelle prime pagine: «Chiunque, purché possieda una cifra, può sedere a un tavolo da poker e infliggere la propria presenza agli altri giocatori, con l’unico scopo di sperperare il suo denaro o depredare quello altrui. Il bridge, che non esibisce nessuna di queste comuni volgarità e che implica una selezione, si limita a premiare chi in anticipo abbia detto addio alla vita. Il vero successo (si riferiva all’eleganza) è nel whist, nel senso in cui si dice che per il successo è necessario allungare il vino con un goccio d’acqua». Come a voler dire che il giusto mezzo sta fra l’esibizione e l’ascesi.
Si è tentati di interpretare queste considerazioni anche come un apologo sullo stile e sulla scrittura in generale; in effetti, Tao 48, un libro letteralmente stratificato tra due secoli, accoglie e prosegue un’idea alta della prosa, poco vincolata alla necessità della trama, ma che allo stesso tempo non si compiace di vertigini espressive (al contrario, le frasi hanno spesso una loro pragmatica concisione, il lessico evita le marcature), né di eccessi narcisistici. Se Cordelli è uno scrittore aristocratico – e in un certo senso lo è – ciò non dipende dalla ricercatezza ma dalla fedeltà. Sarebbe improprio attribuire la funzione di modello a un libro che adempie una committenza recuperando «vecchie carte», come ammette l’autore. Ma di certo lo si può considerare una possibilità, una strada alternativa per arrivare dal Novecento a qua.