fotografia
Alle Gallerie d’Italia di Torino gli scatti dell’artista che ricostruisce come su un set interni ed esterni di un Paese in crisi d’identità Tra echi di Walker Evans e Steinbeck con aggiunta di noir
di Michele Smargiassi
I sogni svaniscono al tramonto. Sul far della sera, in una luce livida che quasi non proietta ombre, gli americani di provincia si bloccano sul posto dove un pensiero sembra averli colti e atterriti: immobili, le braccia cadenti sui fianchi, lo sguardo rivolto al nulla. Paralizzati dall’improvvisa drammatica consapevolezza di qualcosa. La cittadina di Eveningside non esiste, è il parto della fantasia di Gregory Crewdson, fotografo del realismo visionario. Invece esiste: è l’America intera, o meglio è il brutto risveglio di un’America al tramonto.
Per alcuni critici radicali, Crewdson è un esponente del “ neorealismo capitalista”, se non altro per i mezzi da kolossal cinematografico che impiega: troupe di decine di persone, set accuratamente scelti e arredati, uso di attori. Ma questo suo inedito lavoro, esposto in anteprima mondiale alle Gallerie d’Italia di Torino ( fino al 22 gennaio 2023), il primo commissionato nella sua carriera ( da un grande gruppo bancario italiano), sembra essere piuttosto l’addio alla fiducia in un sistema economico che si voleva credere eterno. Dietro le vetrine di negozietti cadenti, lungo strade rappezzate, in cortili fangosi e fradici, i personaggi di Crewdson sono annichiliti, rassegnati, impotenti. Lui stesso, malinconico e corpulento ex ragazzo di Brooklyn con simpatie giovanili per il punk, fra le sale della sua mostra sembra uno di loro. Dopo tutto, è nei luoghi della sua vita, i villaggi dell’America di mezzo, che ha “girato” le sue immagini, e quasi sempre gli attori sono suoi familiari, per prima la moglie Juliane Hiam, una co- autrice più che una collaboratrice. A domanda, conferma: « Qualcosa è appena successa, qualcosa di terribile, noi non sappiamo cosa, ma loro sì, e non possono farci nulla».
Questo senso dell’ineluttabile rintocca in tutto il lavoro di Crewdson, soprattutto nella trilogia di cui Eveningside è l’ultimo capitolo. A Torino sono esposte anche le due prime serie,Cathedral of Pines eAn Eclipse of Moths: anche in quelle, qualcosaè appena accaduto, ma ne abbiamo solo indizi: un lampione abbattuto, un materasso sporco su cui un uomo ha posato dei fiori, una fossa scavata da una donna davanti alla porta di casa: delitti? Catastrofi? Una ragazza in vestaglia e ciabatte, ma con una valigia, è appena scesa da un taxi: da quale minaccia è fuggita così in fretta? Ma questi grandi scenari sono troppo perfetti, i dettagli troppo accurati ( da esplorare con calma e vista acuta) e di nitidezza troppo impressionante ( ogni opera è il risultato della composizione di decine e decine di fotografie prese successivamente nello stesso luogo) tolgono di mezzo ogni possibile interpretazione narrativa. Sono grandi metafore, anzi allegorie: ogni oggetto, ogni abito, anche una insegna possono contenere la chiave di un messaggio. Di cosa? Di un fallimento, senza dubbio. Individuale, o collettivo? Privato o politico? Isolati nelle loro stanze, accasciati su divani, raggelati davanti a una finestra, i personaggi di Crewdson sembrano scontare una colpa personale, anche quando lo sfondo è un dramma sociale ( una delle serie è realizzata a Pittsfield, cittadina industriale devastata dalla chiusura delle fabbriche General Electric, con migliaia di disoccupati e scia di inquinamento). Ma con Eveningside è cambiato qualcosa. La nuova scelta del bianco- e- nero, ad esempio, non è solo stilistica. È un richiamo alla grande tradizione della fotografia documentaria americana. Così virate, le sue storie ricordano il clima della Grande Depressione degli anni Trenta, fotografata da Walker Evans. « Evans, sicuramente » , conferma Crewdson, «ma con l’aggiunta di un po’ di film noir». Nell’America senza storia, malata di eterno presente, quell’eco dei bitter yearsin cui l’America si sentì sull’orlo della povertà risuona inquietante. Eveningside (letteralmente: il lato della sera) è stata pensata e realizzata nel corso di due crisi: la pandemia, e l’era Trump con la sua conclusione drammatico- farsesca. Giustamente, il curatore della mostra Jean- Charles Vergne cita Baudrillard: « Gli americani sono ossessionati dalla paura che i fuochi si spengano» . Dagli anni diFurore ci si sollevò: ma questa volta l’America profonda dei farmer e dei bottegai ha paura che i fuochi non si riaccenderanno più. Il secolo americano è passato. Qualcosa si spegne sotto la luce pesta dei lampioni dove falene impazzite sbattono e si bruciano senza scampo. C’è una via d’uscita? Per questa mostra Crewdson ha finalmente tolto dal cassetto una serie di molti anni fa, che non lo aveva mai convinto. Fotografie di lucciole nella notte. Tutto il contrario del suo lavoro più celebre: impossibile mettere in posa la danza nuziale di quegli esserini fosforescenti. Che abbia o meno letto Pasolini (forse sì, ma attraverso Didi- Huberman), quelle lucciole libere e ingovernabili sembrano la sopravvivenza di qualcosa, la resistenza a qualcosa.