
Nel silenzio d’agosto, un urlo spezzato dall’innocenza perduta
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Ferragosto si avvicina, ma i fronti di guerra in Medio Oriente e in Ucraina non lasciano spazio a pause. La premier italiana, ormai tra i leader più longevi della storia repubblicana, ha scelto di celebrare il traguardo con un messaggio essenziale sui social, promettendo di “ripagare la fiducia” degli elettori. Dietro la sobrietà della forma si muove però un quadro diplomatico complesso, in cui Roma tenta di gestire due crisi contemporaneamente con il rischio di restare intrappolata tra la retorica dell’equilibrio e la scarsità di strumenti concreti.
Nel caso di Gaza, il governo ha intensificato i contatti con i leader mediorientali, insistendo sul “ruolo decisivo” delle nazioni arabe nella ricostruzione e nella ricerca di una pace duratura. È un’impostazione che sulla carta appare pragmatica, ma che si scontra con la realtà di un’occupazione israeliana annunciata, di Hamas ancora saldo sul terreno e di una crisi umanitaria ormai fuori controllo. Le telefonate con il presidente palestinese e con il primo ministro saudita hanno prodotto dichiarazioni congiunte e appelli al cessate il fuoco, senza però generare passi concreti capaci di influire sulle decisioni del governo israeliano. Le opposizioni accusano l’esecutivo di fermarsi alle parole e chiedono atti più incisivi, dalle sanzioni alla sospensione della cooperazione militare con Israele, opzioni che al momento restano escluse.
Sul fronte ucraino, Roma ribadisce l’importanza di un ruolo centrale dell’Unione Europea nei futuri negoziati, mantenendo il sostegno militare e politico a Kiev fino a un cessate il fuoco “equo”. Qui il problema è di credibilità: mentre si invoca l’integrità territoriale dell’Ucraina, si accetta implicitamente che la trattativa possa partire da un nuovo status quo imposto dalle armi, uno scenario che rischia di favorire Mosca. La videoconferenza imminente tra Stati Uniti, UE e Kiev, preludio al faccia a faccia tra Washington e Mosca, rischia di vedere l’Italia in posizione marginale, più spettatrice che protagonista.
In entrambi i teatri di crisi, la strategia italiana sembra oscillare tra il tentativo di mantenere un dialogo aperto con tutti e la necessità di difendere principi di diritto internazionale che imporrebbero prese di posizione più nette. Senza leve economiche, militari o strategiche significative, il Paese si affida soprattutto alla diplomazia simbolica: telefonate, appelli, dichiarazioni. È un approccio che consente di accumulare credito formale come interlocutore di mediazione, ma che rischia di tradursi in un prestigio più apparente che sostanziale, lasciando insoluta la domanda su quale reale capacità l’Italia abbia di incidere sui conflitti che la circondano.