Oggi, 31 anni fa, iniziava convenzionalmente l’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia moderna. Benché non sia un anniversario tondo l’editoria italiana propone un florilegio di pubblicazioni, forse suggestionata e magari inconsciamente, dalle assonanze tra i conflitti balcanici degli Anni Novanta e la guerra in Ucraina (vedremo tutte le similitudini).
Un piccolo catalogo per orientarsi. Keller manda in libreria il pluripremiato Preghiera nell’assedio di Damir Ovcina, romanzo in parte autobiografico, storia di un ragazzo bosniaco che viene sorpreso nel quartiere di Grbavica occupato dai serbi e costretto a seppellire i morti.
Spartaco ha finalmente tradotto in italiano, a decenni dalla prima uscita, Il decimo girone dell’inferno, di Rezak Hukanovic, testimonianza di un sopravvissuto ai campi di concentramento.
Crocetti ripropone all’attenzione del pubblico la scrittrice bosniaca di Srebrenica (il luogo del più feroce massacro in Europa dopo la Seconda guerra mondiale) da tempo residente in Italia Elvira Mujcic la quale ne La buona condotta sposta l’attenzione verso il Kosovo della problematica convivenza tra serbi e albanesi.
Bottega Errante Edizioni continua la sua meritoria opera di riscoperta di autori ex jugoslavi con Mesa Selimovic, tra i grandi del Novecento, e il suoNebbia e chiaro di luna, i giovani partigiani in guerra con i nazisti tra battaglie, amori e speranze.
E aggiunge anche un podcast, prima puntata rilasciata ieri, dal titoloBlokada. Sarajevo la civiltà sotto assedio, di Andrea Baudino e Giuseppe Modica, gli orrori e la resistenza degli abitanti.
Infine Feltrinelli ha portato alla candidatura del prossimo Strega Rosella Postorino, Mi limitavo ad amare te, i bambini che diventano profughi e adulti in Italia.
LA LEZIONE DI SARAJEVO
Si è spesso sentito dire che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha segnato il ritorno della guerra in Europa dopo il 1945. Errore e dimenticanza fatale.
E’ proprio perché non abbiamo appreso la lezione di Sarajevo, e conseguentemente non abbiamo adottato le contromisure, se oggi nel quadrante nord-orientale del Continente si è di nuovo scatenata la catastrofe. Fin dal lessico sono evidenti le analogie.
La parola “krajina” nelle lingue slave significa confine. Nella ex Jugoslavia le porte dell’inferno si aprirono nelle krajine a cavallo tra Croazia, Serbia e Bosnia, lembo sud dell’impero austro-ungarico a ridosso del mondo ottomano.
Ucraina ha la stessa radice ed era il limite a settentrione dello stesso impero. Zone miste non esattamente definite per area d’influenza, di incontro e purtroppo di scontro tra popoli abituati a una convivenza fragile, pronta ad andare in frantumi quando la propaganda, le convenienze politiche, la mitomania dei leader, azionano la leva del rancore e spingono verso il sovranismo, cioè il nazionalismo nascosto sotto un altro termine persino più estremo.
Dopo la caduta del Muro di Berlino, cominciarono a circolare con insistenza parole che sembravano finite fuori corso in Europa all’epoca della Guerra Fredda e del congelamento geopolitico, come secessione, indipendenza.
La chiesero per primi sloveni e croati. A Lubiana e Zagabria il refrain era: “Siamo stanchi di mantenere le Repubbliche del Sud, ogni cento dinari che mandiamo a Belgrado ne ritornano sul nostro territorio 18”. Belgrado ladrona insomma, uno slogan assai simile a quello che avremmo sentito echeggiare di lì a poco nella Padania di Bossi contro “Roma ladrona”.
La rivendicazione economica nascondeva il risorgere di antichi rancori risalenti alla Seconda guerra mondiale, quando nell’ex Jugoslavia si contarono circa 1 milione e 800 mila morti, 600 mila dovuti alla resistenza contro l’occupazione nazi-fascista e 1 milione 200 mila alla faida interetnica tra cetnici serbi cioè estremisti monarchici, ustascia croati alleati di Hitler e Mussolini, e partigiani di Tito.
MILOSEVIC PRIMA DI PUTIN
Slodoban Milosevic, il presidente serbo, reagì al ventilato smembramento del paese varando l’idea della Grande Serbia, una patria per tutti i consanguinei dovunque abitassero che avrebbe dovuto contemplare la conquista di una fetta di Croazia e di una porzione ancora più grande di Bosnia.
Da aggiungere alla ripresa sempre con la forza del Kosovo, allora provincia della Serbia oggi indipendente (ma non riconosciuto da tutta la comunità internazionale), abitato in maggioranza da albanesi. Il Kosovo culla della cultura serba, con il primo patriarcato ortodosso che ebbe sede a Pec, con i monasteri di Decani, Studenica, Gracanica.
Con Kosovo Polje, la piana dei Merli dove nel 1389 si combatté la celebre battaglia contro la Sublime Porta, celebrata come la “gloriosa sconfitta” perché fermò la penetrazione musulmana verso il cuore d’Europa.
Archiviata presto la pratica Lubiana perché la Slovenia era etnicamente pura (98 per cento di cittadini sloveni), Milosevic mosse i carri armati, l’esercito e le milizie verso Zagabria perché là erano «tornati gli ustascia» sotto il comando del presidente ultranazionalista Franjo Tudjman. Salvo poi dedicarsi alla Bosnia dove, con il presidente Alja Izetbegovic erano «tornati i balja», i turchi, per costruire una “dorsale verde”, musulmana nei Balcani.
Non viene un capogiro se si mettono in fila questi elementi? Non sembra, il Milosevic di allora, il Vladimir Putin di oggi? Il Putin che risolve per le vie spicce e con due guerre cruente il problema della Cecenia musulmana, dunque interviene per “difendere i russi” separati dalla madre patria dopo l’implosione dell’Unione Sovietica in Ossezia del Sud, in Crimea e infine nell’intera Ucraina.
In questo caso col proposito di “denazificare” Kiev, luogo d’origine della prima Russia, dove sono comparsi nella sua narrazione paranoica gli epigoni di Stepan Bandera, il nazionalista ucraino collaborazionista di Hitler (ci sono, in parte assai minoritaria e non stanno al potere). E di riportare i suoi soldati sulle rive del Dnipr, il fiume sacro dell’epica del Cremlino.
Tutti i serbi in uno stato (la cosa non riuscì). Tutti i russi in uno stato e il progetto è sul tavolo. C’è da supporre che se la Russia non si occupò della questione nell’imminenza del suo sfacelo, all’inizio degli Anni Novanta, è perché non ne aveva la forza con il paese economicamente in condizioni misere, la già Armata Rossa in sfacelo, una leadership debole fino all’avvento dello zar Vladimir e al suo desiderio di un ritorno alla potenza, ai fasti del passato imperiale.
SOTTOVALUTATI
Entrambi, Milosevic e Putin, hanno potuto godere di una sostanziale sottovalutazione della comunità internazionale agli inizi dei loro intenti predatori. Milosevic a causa del fatto che il disfacimento della Jugoslavia era coevo al disfacimento dell’Unione Sovietica, una potenza nucleare, e dunque verso Mosca erano indirizzate le attenzioni del mondo.
I Balcani erano periferia degli interessi, attorno ai quali stendere un cordone sanitario e se la vedessero tra di loro. Putin perché il ventunesimo secolo sembrava indirizzato verso una diarchia tra Stati Uniti e Cina, salvo scoprire gli appetiti del terzo incomodo.
La Russia è ora in cima alle preoccupazioni per via, sempre, delle atomiche nei suoi arsenali. Se ha potuto spingersi sino all’invasione di un vicino, confidando magari sull’impunità, è perché nei Balcani, 30 anni fa, si era rotto il tabù dell’inviolabilità dei confini, sancito dalla Conferenza di Helsinki del 1975, e che doveva regolare i rapporti tra gli stati. Un principio entrato in collisione con il suo opposto, l’autodeterminazione dei popoli, presupposto delle secessioni.
La lezione di Sarajevo era chiara per chi avesse voluto apprenderla. Permettere che nella capitale della Bosnia si uccidesse l’idea della convivenza e della tolleranza, si teorizzasse, di fatto, che gente di diversa origine non potesse vivere insieme in nome del primato dell’appartenenza di sangue, ha aperto il vaso di Pandora da cui sono usciti i miasmi delle peggiori rivendicazioni claniche che hanno ammorbato il pianeta. Lo zar di Mosca ha interpretato questo spirito del tempo avendo i Balcani come modello.
Sapete chi è l’uomo politico che più ha ricevuto al Cremlino negli ultimi due anni? Si chiama Milorad Dodik, è il leader della Repubblica serba di Bosnia, una delle due entità costitutive del Paese. Rappresenta poco più di un milione di persone ma è pronto a infiammare di nuovo l’area con un referendum per ricongiungersi alla madre patria.
Sotto i buoni auspici di Putin e in nome della fratellanza ortodossa. Una comunità di intenti che ha portato, si calcola, almeno seimila aziende serbe ad aprire uffici a Belgrado per evitare l’embargo.
C’è una linea retta che congiunge due storie sfalsate nel tempo: non nell’essenza profonda del segnale che mandano.