Il buon filosofo riesce a guardare a ogni evento della vita – lieto o spiacevole – per trasformarlo in una preziosa riflessione per sé e per gli altri. Penso a Seneca, che dall’esilio nella selvaggia Corsica – allora non era proprio un’accattivante meta turistica –, scriveva, per consolare la madre Elvia, che per lui si trattava di un’utile occasione per mettersi alla prova. Maurizio Ferraris, filosofo campione di realismo, autore dell’ontologia del telefonino, delle teorie della documentalità e della post-verità, si cimenta oggi in qualcosa di abbastanza diverso – che allo stesso tempo contiene una summa delle sue visioni filosofiche: una meditazione esistenziale, seguìta a una rovinosa caduta che gli ha procurato un omero fratturato. E poiché il corpo è la carta bianca su cui si registra il corso del tempo della nostra vita, ciò che è accaduto a Ferraris – come accade a chiunque di noi – è che il tempo vissuto, con le sue routine, ne è risultato scardinato. Da uno zibaldone di annotazioni composte durante la laboriosa convalescenza, «l’era dell’osso dissestato e del tempo disossato», nasce un libretto indispensabile, intitolato Imparare a vivere, che è denso di grazia, della consueta ironia ferrarisiana e di una qualche verità circa il paradosso dei paradossi, quel socratico sapere di non sapere cosa sia, alla fine, la vita e se è mai possibile imparare a viverla e a viverla bene. Stando a quanto scrive due mesi prima di lasciare il mondo l’amico fraterno di Ferraris, Jacques Derrida, imparare a vivere non è possibile, perché significherebbe accettare definitivamente il fatto di dover morire.
Ma se si accetta l’idea heideggeriana che la morte conferisce alle nostre azioni un orizzonte di senso, è anche vero che il pensiero della morte, una volta inoculatosi nella mente, non ne esce più e ci immalinconisce. Con Ferraris esercitiamo un sano realismo: il nostro tempo ha veramente una scadenza ultima (al di là degli alibi che ci procuriamo) e la realtà ci oltrepasserà, esisterà ancora e indipendentemente da noi, quando noi saremo trapassati. L’errore fatale che possiamo commettere è quello di ignorare la questione: come il pesce dell’aneddoto raccontato da David Foster Wallace (che, per dovere di cronaca, si è suicidato) e che campeggia quale simbolo sulla copertina del libro. Due giovani pesci, nuotando, ne incontrano uno più anziano che chiede loro «Com’è l’acqua, oggi?»; ma uno dei due giovani risponde: «Che diavolo è l’acqua?». Come l’acqua per i pesci che non sanno di nuotarvi, così può essere per noi una vita vissuta nella totale inconsapevolezza; il che costituisce un grande peccato, se non religioso di certo filosofico.
Ma non tutto è perduto. Ferraris ripone salda fede in quella che egli definisce (con un ossimoro solo apparente) la «cultura tecno-umanistica». Noi esseri umani siamo, infatti, composti da due nature indissolubili: una prima natura organica – che cessa con la morte una volta per tutte; e una seconda natura tecnica, capace di sopravviverci, che è anche umanistica nella misura in cui l’essenza di homo sapiens coincide per natura con la sua abilità tecnica; e ciò sin dai tempi remoti in cui imparò a fabbricare manufatti e a raccogliersi in gruppo attorno a un fuoco per narrare storie. Infatti, l’artefatto tecnico più straordinario di cui dispone la nostra specie è la scrittura, la trascrizione di storie in documenti capaci di trasmettere il sapere alla collettività al di là della cessazione della vita del singolo. Gli apparati di registrazione, qualsivoglia essi siano – pitture rupestri, papiri, taccuini, volumi, pdf o podcast, film o anche solo post sui social – rappresentano una forma di sopravvivenza, se non del corpo, quantomeno del corpus di informazioni (più o meno utili) da tramandare ai posteri.
C’è, anche, l’esercizio del previvere, cui ci si dedica da giovani immaginando cosa sarà il futuro adulto fintanto che il futuro non si fa davvero presente, sovrastandoci col suo portato di ingombrante realtà. Possiamo previvere grazie alle opere letterarie o cinematografiche, insomma attraverso la finzione, utile frutto di quella cultura tecno-umanistica di cui Ferraris tesse l’elogio: le opere di finzione ci fanno provare con l’immaginazione esperienze che avranno un’inevitabile ricaduta nel modo in cui vivremo la nostra vita. È il caso dell’esilarante episodio autobiografico, in cui Ferraris narra di come, a soli 14 anni, nell’estate tra la scuola media e il liceo, lesse d’un fiato tutti i volumi della Recherche di Marcel Proust – un autore che oggi non considera più “suo” e forse nemmeno più apprezza; eppure, la lettura di quell’opera, manifestatasi come un’ossessione, visto che successivamente l’ha riletta ben sette volte, gli è stata comunque fondamentale.
Nella scrittura, nella lettura, nella trasmissione e condivisione di documenti c’è l’insegnamento più profondo e commovente che ci proviene da questo saggio: il convivere. Siamo animali socievoli, inestricabilmente legati agli altri – a chi ci sta a fianco e a coloro di cui leggiamo a distanza di secoli. Sono gli altri a darci un senso, sin dalla nascita, sin da quando imparammo a sorridere imitando il sorriso di nostra madre e a recitare filastrocche. Oggi più che mai, nell’era dell’individualismo e del narcisismo globalizzati, è di fondamentale importanza ribadire che la convivenza e l’empatia costituiscono l’essenza stessa della nostra umanità e il vero antidoto a ogni forma di nichilismo.
Maurizio Ferraris
Imparare a vivere.
Vivere, sopravvivere,
previvere, convivere
Laterza, pagg. 152, € 15