di
Maurizio Fiorino
È PRATO (FIRENZE) un piacere o un’agonia, l’opera di Peter Hujar? Potrebbe essere questo, alla fine, il sottotesto interrogativo di Azioni e ritratti / viaggi in Italia, la mostra che il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato ha deciso di dedicare al fotografo americano. E per piacere e agonia s’intende, chiaramente, quel dilemma espresso sul volto di una delle immagini di Hujar più conosciute e virali, ovvero quell’istante post- orgasmic- chill ( la citazione agli Skunk Anansie è d’obbligo) finito, decenni dopo, sulla copertina del celeberrimo romanzo di Yanagihara. Scelta che, chissà, ha probabilmente contribuito in quello che appare uno dei principali passatempi dell’arte, ovvero rivalutare artisti finiti chissà come e perché in un limbo provvisorio e che all’improvviso vengono riscoperti. Ma andiamo con ordine. C’è un aneddoto che rende chiaro l’approccio di Hujar nei confronti dei suoi soggetti, ed è contenuto in un piccolo volume dal titolo Peter Hujar’s Day, pubblicato qualche anno fa da una minuscola casa editrice indipendente, la Magic Hour ( e che presto diventerà un film). Questa è la storia: negli anni Settanta, la scrittrice Linda Rosenkrantz decide di chiamare i suoi amici artisti per farsi raccontare, per filo e per segno, tutto ciò che era accaduto loro durante una giornata qualunque. Hujar raccontò del suo primo assegnato per ilNew York Times,ovvero una serie di ritratti ad Allen Ginsberg che insistette per farsi fotografare davanti a dei caseggiati fatiscenti dell’Upper East Side. Il lavoro si rivelò più complicato del previsto e a specifica domanda, Hujar parlò di quel giorno come di una mancanza di connessioni. Ed è questa, probabilmente, la chiave di lettura per elaborare l’opera di questo straordinario artista, ovvero le connessioni che è stato capace di creare attraverso la sua macchina fotografica. Hujar, per chi non lo sapesse, ha scattato per tutto l’arco della sua vita, purtroppo brevissima ( è morto nell’ 87, a 53 anni), amici e amanti. Si trattava perlopiù di artisti, scrittori, personaggi della vita queer newyorchese come Susan Sontag, Fran Lebowitz, Warhol, Burroughs, David Wojnarowicz e John Waters. Alcuni di loro sono esposti nella mostra di Prato, affiancati alle fotografie che l’artista scattò durante i suoi viaggi in Italia. Tra ragazzini che si tuffano dagli scogli, pesci, un ritratto di due coppie in cui, curiosamente, a fumare sono le due donne e non i maschi del gruppo, Hujar ha visitato il nostro Paese a partire dagli anni Cinquanta e fino ai Settanta: Firenze, Sperlonga, Palermo, Napoli e via dicendo.
Eppure è a “ quella” fotografia che si torna e si ritorna, complice, per l’appunto, l’era in cui viviamo, quella in cui il confine tra reale e virtuale, tra bisogno di intimità e desiderio, attraverso social, di essere ovunque e diventare virali, è sempre più sottile. Questa bizzarra commistione sembra aver trovato, inAzioni e ritratti / viaggi in Italia, il suo epicentro nell’immagine delvolto di un uomo con gli occhi chiusi e una mano poggiata su una guancia. L’espressione è ambigua: sembra che provi dolore fisico, o che sia sul punto di mettersi a piangere. Ma è il titolo a spiegare l’immagine e a farci capire quanto siano importanti sia i titoli che le corrette didascalie (i photo-editor di tutto il mondo continuano a sgolarsi urlandolo ai quattro venti, quasi sempre inascoltati). Si tratta, insomma, di Orgasmic Man, del 1969. L’uomo, ora lo sappiamo, è in estasi sessuale, sul punto, forse nel pieno o subito dopo un orgasmo. È un’immagine violentissima e poetica, conturbante e definitiva che sembra racchiudere tutto il senso della mostra e della fotografia di Hujar.
Curata da Grace Deveney dell’Art Institute of Chicago con Stefano Collicelli Cagol, nell’esposizione, aperta fino all’ 11 maggio, è possibile trovare, come dicevamo, anche David Wojnarowicz, anche lui fotografo ( celebre per la serie in cui immortalò i suoi amici in giro per New York con indosso una maschera di Artur Rimbaud) vent’anni più giovane di Hujar, finito anche lui in un limbo-dimenticatoio che speriamo finisca a breve. I due si incontrarono nell’81, ebbero una relazione, si fotografarono a vicenda diverse volte e il più giovane descrisse l’altro come «una specie di insegnante, un fratello, un padre » . È emozionante vedere gli scatti di Hujar fatti a Wojnarowicz, perché contengono tutto ciò che dovrebbe esserci quando le circostanze portano a cancellare, prima del previsto, quel che sarebbe potuto essere e non è stato. Quando Hujar morì, Wojnarowicz lo filmò con una cinepresa super- 8 e, non contento, fotografò singole parti del suo corpo senza vita, incluse le mani, i piedi, il volto smagrito dalla sofferenza. Scrisse che « la sua morte è come se fosse impressa su pellicola sul retro dei miei occhi» e trasformò, insomma, un lutto privato in una dichiarazione d’esistenza pubblica. Poi si trasferì nel suo loft, sulla Second Avenue, ma morì anche lui, cinque anni dopo, per lo stesso motivo: complicazioni legate all’Aids. Entrambi fanno parte di una generazione di artisti letteralmente sterminata e la domanda, guardando questa mostra, sorge a più riprese, implacabile: che tono avrebbe avuto, oggi, la loro voce? Che codici grammaticali avrebbero continuato a scrivere, magari insieme, Wojnarowicz e Hujar, nell’alfabeto fotografico?
Si torna a ragionare, dunque, su ciò che è visibile e soprattutto invisibile nelle foto e, senza voler scomodare Arbus, la risposta che sembra voler dare lo stesso Hujar attraverso le sue foto è semplice quanto disarmante: l’alfabeto tipico della poesia e, di nuovo, delle connessioni. È curioso, in conclusione, il recente percorso espositivo del Centro Pecci visto che, in contemporanea a Hujar, c’è la mostra di Margherita Manzelli e, soprattutto, dell’americano Louis Fratino. Seppur ipercolorato, Fratino sembra maneggiare il complesso materiale umano alla stessa maniera del bianco e nero di Hujar, ovvero in maniera gentile, lieve.