Caso ballottaggi nel centrodestra Da Verona a Parma nessun patto
20 Giugno 2022Da Calenda a Renzi a Di Maio: chi pensa che esista uno spazio al centro sbaglia
20 Giugno 2022È forse questo il tempo di porre una domanda politica cruciale: domanda che da tanti anni, dalla fine della II guerra mondiale e dalla sconfitta dei totalitarismi, non si poneva nemmeno, tanto ovvia era la risposta: la democrazia con le sue forme, le sue procedure, i suoi simboli, ha un valore? Oggi ci rendiamo conto della risposta: “dipende”. Dipende da che cosa c’è dentro. La democrazia è teatro. Nel teatro classico le idee astratte, i desideri, le passioni venivano messe in scena personificate. La pace sortiva da una spelonca dove era stata imprigionata ed era una fanciulla avvolta in pepli vaporosi. Quando il popolo vide che cosa c’era dentro, non si trattenne dal gridare: com’è bella! Per tessere le lodi di Socrate, Alcibiade lo paragonò a quei ‘sileni’ esposti nei mercati che, sebbene brutti all’esterno, guardati dentro, rivelano meraviglie. Bisogna guardare oltre i veli, al di là delle apparenze. Lo stesso vale per la democrazia. Per dire se abbia un valore, guardare dentro. Non ci vediamo sempre le stesse cose. C’è del bello e del brutto.
Finita la guerra, le tante critiche, antiche e moderne — la democrazia è il regime in cui il popolo è adulato, piuttosto che educato (Platone); è la tirannia non di uno solo o di pochi, ma dei molti (Chateaubriand) — erano messe a tacere. Democrazia era diventata il biglietto d’ingresso tra i popoli civilizzati. Poteva essere aggettivata in vario modo: liberale, popolare, progressista, socialista, sociale, islamica, eccetera, ma la forza incontestabile dell’idea stava nel concetto contenuto nel sostantivo. Niente di strano: la guerra era stata tra due visioni del mondo, autocratica e democratica, e aveva vinto la seconda. Che il concetto fosse piuttosto nebuloso non impedì, anzi facilitò, il suo diventare un “concetto idolatrico”.
Che cosa s’intravedeva allora, per il futuro, attraverso quella parola? Pace, giustizia, uguaglianza, libertà, fratellanza, convivenza tra i popoli. Insomma, un mondo nuovo che avrebbe contenuto cose molto belle. La decolonizzazione, cioè la liberazione di spazi immensi del mondo sarebbe presto stata il grande frutto, talora pagato ad altissimo prezzo di sangue (la “battaglia di Algeri” ad esempio) preteso dai colonizzatori europei, quelli che a Berlino, nel 1885, s’erano spartiti Asia e Africa come se fossero cose loro. Democrazia significava, in primo luogo, diritto di essere governati da se stessi, contro il dominio delle potenze coloniali. Noi, nel mondo oggi segnato da altre questioni e altri metodi di sfruttamento detti “neocoloniali”, abbiamo forse perso la percezione di quanto grande fu quell’affacciarsi di continenti interi al protagonismo nella politica mondiale. Affacciarsi forse soltanto, non insediarsi, in un processo incompiuto e minacciato, ma certamente straordinario.
Questo c’era nella democrazia; questo le dava un incontrovertibile valore nelle dinamiche e nelle controversie internazionali. Anche in quelle nazionali.
La democrazia mirava a modellare non solo la politica e le sue istituzioni, ma anche le società nelle loro articolazioni. La democrazia doveva riempirsi di significati sociali ed espandersi in luoghi che erano stati tradizionalmente refrattari: la famiglia, la scuola, i luoghi di lavoro, perfino l’esercito, l’arte e la cultura, la pratica medica e psichiatrica, l’urbanistica, eccetera. In certipaesi, anche nella gestione delle imprese (mai, però, finora nella finanza, fortilizio inespugnabile). Tutto, o quasi, era o doveva essere “democratico” e, se non lo era ancora, era sospetto di illegittimità.
Questa è stata la fase felice della democrazia, quando essa era la parola d’ordine che mobilitava energie, passioni, movimenti, partiti. Se ci chiedessimo che cosa c’era allora dentro alla democrazia, sapremmo bene che cosa rispondere. La democrazia, per mezzo dell’azione di coloro che si richiamavano ai suoi valori, manteneva le sue promesse.
È ancora così? C’è da dubitarne. Il declino, anzi la corruzione, della democrazia è sintetizzato in espressioni che da tempo ormai hanno preso campo nelle discussioni dei politologi e dei giornalisti e che sembrano diventate senso comune di chi si occupa di queste cose. Che cosa significano post-democrazia, tardo-democrazia, democrazia disciplinata o gestita (managed), democrazia come maschera di oligarchie, plutocrazia che si fa teatro con costumi democratici (teatrocrazia), democrazia illiberale, democratura. Sono tutte espressioni che tradiscono la nostalgia di qualcosa come la democrazia autentica, o la disillusione di fronte a promesse non mantenute. Ma ciò si affianca a qualcosa di ancor più significativo e insidioso: una contestazione non solo di fatto, ma anche di valore. Apertamente ci si pone contro il governo delle “masse” irresponsabili e si propone di limitare le occasioni elettorali e il diritto di voto. Si divide il popolo in buoni e cattivi e si teorizza e si pratica l’esclusione dei secondi. Si propone di riservare il governo a “coloro che sanno” e di toglierlo a quelli che, non sapendo, rappresentano una minaccia. Così, la democrazia sarebbe un regime tarlato in se stesso.
Nuove “crazie” si affacciano: oligo-crazie, aristo-crazie, episto-crazie (da “epistème”, conoscenza). Tutte teorizzazioni ripescate dall’antica, sempre pronta a riemergere, tradizione antidemocratica. Ora, tuttavia, siamo in un’altra fase. Non sappiamo quanto potrà durare ma, per ora, assistiamo a una rinascita degli ideali democratici da schierare sul campo del conflitto tra l’Occidente liberale e democratico e l’Oriente oscurantista e autocratico: la nostra cultura politica contro quello che un tempo era detto il “dispotismo asiatico”. L’invasione russa dell’Ucraina, la guerra che ne è nata, le ripercussioni che non potranno non essere di lungo periodo nelle relazioni tra le Nazioni del mondo: tutto questo sembra avere improvvisamente rianimato la nostra fede democratica, che sembrava esausta.
Evviva? Mica tanto. Questa è una rinascita non degli ideali democratici (che non sono mai morti) ma della democrazia come ideologia che fa di ogni erba fascio.
Noi siamo legati alla democrazia e ai contenuti che mettiamo in questa idea. Ma non possiamo ignorare le grandi ingiustizie che in nome della civiltà occidentale democratica sono state inferte al mondo che abbiamo scartato dal nostro, in nome di un complesso di superiorità. Sulla coscienza delle vittime dell’ “Occidente” pesano molto di più le guerre, le conquiste, gli sfruttamenti che non le belle ideologie, facilmente considerate inganni sulla loro pelle. Se volessimo sapere che cosa pensano di noi e della nostra civiltà “superiore” le genti di questo altro mondo, ci si potrebbe informare sul grande piccolo libro di Arnold Toynbee, Il mondo e l’Occidente,
la cui lettura potrebbe essere un farmaco salutare. Servirebbe a evitare autoesaltazioni produttive di ulteriori risentimenti, eccitazione di spiriti di rivalsa, supplemento di aggressività. Tutto il contrario della discussione, della disponibilità a mettere in causa le proprie opere e omissioni e a chiedere agli altri di fare altrettanto. Tutto il contrario, cioè, del terreno su cui può fiorire la democrazia, insieme alla sua gemella, la pace.Ritorniamo all’immagine iniziale. Che cosa vediamo guardando dentro quella parola? Offriamo democrazia, sì; impegnamoci a difenderla, sì. Ma senza deturparla con la retorica.