La prima cosa che serve a chi si sente in pericolo è un posto altro dove andare. Questo è quello che mi dicono tutte le donne che ho conosciuto che hanno subito o sospettato violenza, e questo è quello che ti dicono le operatrici del settore.

La prima cosa è avere un cellulare da chiamare, e un posto sconosciuto all’aggressore e poi, da lì, denunciare. Cosa accomuni questa mattanza di donne lo sappiamo tutti: le hanno uccise i maschi, e le uccidono maschi conosciuti, compagni, mariti e amanti.

Ma anche quello che accomuna spesso le vittime di questa ecatombe è che avevano denunciato. Ora, denunciare è una cosa difficilissima, ti prendi uno schiaffo, ti prendi un «io ti ammazzo», e devi cominciare a pensare che risuccederà, che lo farà. Ovvero devi avere la lucidità di pensare che l’uomo che hai amato, che hai sposato, con cui hai avuto dei figli, sia convinto che tu non meriti una esistenza senza di lui, sostanzialmente: che tu e i tuoi figli siete roba sua.

Non è facile, ma c’è chi ci riesce, e allora comincia un’altra cosa difficilissima: andarlo a raccontare a qualcuno, sapendo di consegnare quell’individuo che fu tuo marito e il loro padre alla polizia, al giudizio di un magistrato.

Cosa ne sarà della mia vita? È il pensiero di tutte. Sto facendo la cosa giusta per i bambini? È il pensiero di tutte.

Una volta una operatrice umanitaria mi disse che l’anello vulnerabile di tutte le guerre sono le donne perché hanno i bambini con loro. Ecco, è uguale, quando si conta una vittima al giorno si sta combattendo una guerra in cui l’anello vulnerabile porta con sé i figli, cioè il futuro.

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Roma, Milano, Bologna e le altre. In piazza contro il patriarcatoL’omicidio è il delitto senza possibilità di ritorno per la vittima, ma va sommato agli stupri, alle violenze domestiche, alle vessazioni culturali e, degradando verso il meno tragico ma non meno influente, alle differenze salariali, alla disoccupazione femminile.

Nei compiantissimi anni 70 insieme al Servizio sanitario Nazionale, ci fu l’istituzione dei consultori, che erano un posto di primo ascolto per le donne, di primo aiuto. Da vent’anni a uno a uno li stanno chiudendo, li accorpano, li depotenziano, come fanno con gli ospedali. Non sono una sociologa, quello che ho disegnato è un asse sghembo e non posso dirlo né corretto né completo, ma è quello che vedo.

Il modo in cui siamo considerate in questo e altri paesi di fatto ci ascrive alla definizione di «minoranza», noi siamo la minoranza più numerosa del paese.

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Codice rosso, una nuova modifica che non risolveCosa è urgente, ora? Cosa si può fare subito? Fornire un numero di telefono da chiamare, a cui risponda qualcuno. Trovare uno sportello sempre aperto dove andare a capire davvero cosa stia accadendo. Avere un posto sicuro per sé e i propri figli dove trasferirsi e mettersi al riparo. Avere la certezza che, sporta denuncia, essa sarà un deterrente sufficiente: perché troveranno il modo.

Il parametro della tutela dovrebbe essere lo stesso che si utilizza per le minacce di camorra. Oggi il presidio di elezione per salvarsi sono i centri antiviolenza. Bisogna finanziarli, riempirli di professionalità, renderli capillari e raggiungibili, e darne notizia il più possibile, andando a raccontare dove sono scuola per scuola, ufficio per ufficio, in qualunque luogo, in attesa che questo diventi un paese per donne.