di Sergio Fabbrini
Sono passati due anni dall’aggressione russa dell’Ucraina, eppure la discussione sulla difesa europea va avanti tra piccinerie e confusioni. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente francese Emmanuel Macron polemizzano sul contributo dei rispettivi Paesi al Fondo di cinque miliardi di euro della European Peace Facility (EPF) che dovrebbe sostenere l’Ucraina nei prossimi anni. Scholz chiede che il contributo tedesco al Fondo venga scontato (“rebate”) dei contributi forniti unilateralmente all’Ucraina, Macron vuole che venga inserita invece una clausola che imponga al Fondo di comprare armi, da trasferire poi a Kiev, fabbricate solamente in Europe (“Buy European”). Così, la Facility è in stallo, mentre i russi avanzano militarmente. Alziamo lo sguardo e domandiamoci: come affrontare i temi della difesa europea? Io vedo due approcci o “modelli”.
La difesa europea è costituita di una componente industriale e di una componente militare. Per ragioni storiche, per inerzie istituzionali e per corporativismo nazionalista, la difesa europea è stata finora interpretata con il modello del coordinamento delle difese nazionali. Sul piano industriale, ogni Paese si muove autonomamente, in una competizione tra imprese industriali nazionali, con i Paesi più deboli o più piccoli autorizzati a giocare il ruolo dei free-riders (promuovendo collaborazioni ed acquisendo armi con società extra-europee, americane in particolare). Il coordinamento industriale ha generato una frammentazione della produzione militare, con relativa dipendenza della difesa europea (per quanto riguarda le tecnologie più sofisticate) dalla produzione extra-europea. Sul piano militare, il modello del coordinamento ha prodotto duplicazioni e sprechi nelle spese militari nazionali, con l’esito di depotenziare la capacità dissuasiva europea. I Paesi europei della NATO spendono (insieme) 380 miliardi di euro nella difesa, una cifra all’incirca equivalente alla spesa per la difesa della Russia, ma quest’ultima ha una capacità offensiva di gran lunga superiore a quella degli europei (la cui debolezza è compensata dalla forza militare degli americani). Come ha argomentato l’Economist nel suo ultimo numero, non si tratta solamente di portare la spesa militare dei Paesi membri della NATO al 2 per cento del loro Pil, ma si tratta di spendere meglio quel 2 per cento. La Commissione europea si è proposta di coordinare gli acquisti di armi dei Paesi europei, ma la proposta è stata subito bocciata, in particolare dai Paesi più grandi (come la Germania). Quest’ultima si è impegnata ad investire nell’industria militare cento miliardi di euro, un investimento massiccio che la trasformerà nella potenza industriale-militare d’Europa. Fino ad ora, la differenziazione nazionale di capacità militari è stata controllata dalla leadership militare e politica americana all’interno della NATO. In virtù della sua legittimazione storica (aver contribuito alla sconfitta del nazismo) e del suo carattere liberale (inclusione degli sconfitti nell’organizzazione dei vincitori), oltre che per gli enormi investimenti di materiale e personale, l’America è stata accettata come il Paese che guidava l’Alleanza. E se l’America si disimpegnerà dalla NATO?
Senza la leadership americana, il modello del coordinamento delle difese nazionali è destinato ad implodere. Nessun Paese europeo, tantomeno i due più grandi (seppure con l’aggiunta di Varsavia), ha la legittimità per esercitare una egemonia sulla difesa europea. Non è la forza economica che giustifica quest’ultima, come pensa invece Armin Papperger, il Ceo della più importante industria tedesca, la Rheinmetall, il quale ha affermato (al Financial Times del 21 febbraio) che “se la Germania spende di più nella difesa, allora spetta a lei coordinare gli altri Paesi e non alla Commissione”. Il modello del coordinamento riporterebbe in superficie le divisioni, nelle capacità fiscali e nelle infrastrutture militari, tra gli stati membri. Né queste difficoltà si risolverebbero creando l’ennesima carica senza potere, come il Commissario per la Difesa proposto da Ursula von der Leyen. Questi problemi si risolvono avviando l’introduzione di un modello sovranazionale di difesa europea, finanziato da debito europeo e non dai singoli Paesi. Sul piano industriale, contrariamente a NGEU, i cui fondi raccolti nel mercato finanziario sono trasferiti ai singoli Paesi, unici titolari del loro utilizzo, i fondi per la produzione industriale dovrebbero invece essere gestiti dalla Commissione (sotto il controllo del Consiglio dei ministri e del Parlamento europeo) per avviare progetti industriali-militari transnazionali (così da evitare divisioni tra gli stati). Nello stesso tempo, sul piano militare, occorrerà dare vita ad un’autonoma capacità militare sovranazionale, dipendente dalle istituzioni sovranazionali. L’Europa deve essere autonoma strategicamente, non solo da Washington D.C. ma anche dalle capitali dei suoi stati membri. Il rapporto tra difesa europea e difese nazionali non è a somma zero, la crescita dell’una non conduce alla scomparsa delle altre. Conduce però ad una loro specializzazione, con relativa riduzione dei costi. Insomma, la difesa è la grande questione europea. Senza l’America, il modello del coordinamento delle difese nazionali ci fa andare indietro. Un altro modello c’è. Ma occorrerebbe alzare lo sguardo per vederlo.