TEL AVIV — C’è uno scontro paralizzante tra il primo ministro Netanyahu e i suoi generali, nel bel mezzo di una crisi profonda per Israele e alla vigilia di un assalto che molti continuano a descrivere come “definitivo” contro Hamas nella Striscia di Gaza. È uno scontro così serio che potrebbe persino portare alle dimissioni di Netanyahu e quindi ad annullare il patto non scritto che il primo ministro aveva stretto dopo le stragi del 7 ottobre con gli altri politici israeliani, con i militari e con gli elettori: adesso è il momento di mostrarsi uniti e uniti andare in guerra, c’è stato un fallimento nel prevenire l’attacco di Hamas e qualcuno ne dovrà rispondere, ma la resa dei conti va rimandata a dopo.
Netanyahu vuole rimandare a data non meglio specificata l’invasione di terra della Striscia, perché l’Amministrazione Biden – come ha scritto ilNew York Times domenica – sta facendo pressione su di lui perfermare l’operazione. L’Amministrazione Biden ha bisogno di più tempo perché sta negoziando via Qatar il rilascio del numero più alto possibile di ostaggi prima dell’attacco. Hamas asserragliata nella Striscia incoraggia queste pressioni della Casa Bianca su Israele, venerdì ha liberato due donne americane e ieri due anziane cittadine israeliane. Nel pomeriggio circolava la voce che il gruppo palestinese fosse pronto a consegnare cinquanta ostaggi in cambio dell’assicurazione che l’invasione non sarebbe cominciata. Del resto, per questo aveva sequestrato più di duecento persone: per giocare una partita politica dopo i massacri del 7 ottobre. Le decisioni le prende Netanyahu – su consiglio di Biden – e infatti ieri mattina la radio militare israeliana ha dichiarato che «Israele ha deciso di rimandare l’operazione di terra per dare il tempo agli Stati Uniti di portare rinforzi nella regione».
I generali hanno fretta di cominciare l’operazione di terra dentro la Striscia di Gaza, perché sanno che non possono tenere mobilitati in eterno centinaia di migliaia di riservisti, e ieri è uscita sulla stampa israeliana una strana fuga di notizie attribuita in modo generico all’Idf e che diceva: «L’Idf fa sapere che non può starsene seduta sui pollici per sempre». Netanyahu è consapevole che prima o poi ci sarà una commissione d’inchiesta sulle stragi del 7 ottobre e vuole gettare la colpa addosso al ministro della Difesa Yoav Gallant e ai generali. Quelli hanno capito benissimo il piano del primo ministro e sono furiosi, come scrive Ronen Bergman, giornalista di solitobene informato, su Yediot Ahronot .
Una settimana fa il ministro Gallant e i generali volevano attaccare in modo preventivo Hezbollah in Libano, per liberarsi di un nemico che potrebbe aggredire Israele da nord durante la guerra per Gaza, ma Netanyahu ha fermato l’operazione, sempre su consiglio di Biden, che in cambio ha mandato un pacchetto generoso di aiuti militari e due portaerei con la promessa di far alzare i bombardieri se Hezbollah cominciasse una guerra contro Israele. Durante la visita lampo di Biden, Netanyahu ha fatto in modo che quasi non parlasse con Gallant, e la cosa è stata notata.
Per fare pubblicità all’idea che si debba rinviare l’invasione, alcuni fedelissimi hanno fatto circolare un video per sostenere che più si aspetta e più i soldati israeliani saranno al sicuro quando entreranno dentro Gaza, perché i bombardamenti avranno distrutto la Gaza underground, il reticolo di tunnel dove Hamas aspetta il nemico. In realtà per distruggere la Gaza di sotto bisognerebbe distruggere prima la Gaza di sopra, ma questo punto non è spiegato. Tre ministri del governo Netanyahu per ora anonimi sono furiosi con lui perché trattiene l’invasione e uno lo chiama “codardo”. Lui li usa come argomento con gli americani per dire che non può fermare l’invasione per sempre e usa gli americani con i suoi per dire che per ora l’invasione non può partire. I generali sono arrabbiati con Netanyahu perché sostengono, scrive Bergman, che nessuno ha ancora spiegato loro se prendere tutta o soltanto metà della Striscia, quando potranno dichiarare vittoria e se c’è un piano per il dopo invasione. Per questo si può parlare di crisi paralizzante, al diciassettesimo giorno di conflitto.
E non è vero che un primo ministro israeliano non possa abbandonare il suo incarico durante una guerra. Lo fece Menachem Begin durante la guerra del Libano, nel 1983, quando riconobbe di non essere la persona giusta per gestire la guerra e lasciò a favore di Yitzhak Shamir. Ma in questo caso dovrebbe essere Netanyahu, con il profilo caratteriale che ha, a decidere di dimettersi e sembra improbabile. Dietro di lui, Benny Gantz aspetta in silenzio di vedere se il tempo del primo ministro si è consumato e di prendere il suo posto.