Nel suo ultimo saggio Alberto Manguel ci ricorda quanto il capolavoro simbolo della letteratura spagnola renda omaggio alla cultura araba
Nel 1605, quattro anni prima che venisse emanato il decreto di espulsione dei moriscos (la popolazione spagnola di fede islamica, ndr ) fu pubblicato a Madrid El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha . La storia ha inizio, com’è noto, con un anziano signore che, influenzato dalla lettura dei romanzi cavallereschi, decide di farsi cavaliere errante. Sennonché, appena otto capitoli dopo, Cervantes confessa di non sapere come vada a finire l’avventura che sta raccontando e di dover lasciare solo il suo protagonista nell’infuriare della battaglia: lo sconcertato lettore si vede abbandonato a metà di una pagina, ansioso di conoscere il seguito.
Solo nel capitolo successivo Cervantes spiega che, trovandosi un giorno in un’affollata strada di Toledo, gli è capitato di vedere alcuni scartafacci che lo hanno incuriosito. Essendo irresistibilmente attratto dalla parola scritta, capace di leggere perfino la carta straccia gettata per strada, decide di comprarli, anche se sono scritti in caratteri arabi, che naturalmente lui non sa decifrare. Impaziente di scoprire che cosa contengano quelle pagine, cerca un morisco che possa tradurgliele. Nella Spagna dell’epoca, dove arabi ed ebrei ufficialmente non esistevano, era noto a tutti che molti parlavano ancora le lingue proibite (non era difficile trovare degli interpreti, sia dall’arabo che da una lingua più antica, precisa Cervantes), compreso l’ aljamiado , una lingua romanza scritta in caratteri arabi. Cervantes sceglie il suo uomo e gli chiede una traduzione a prima vista. Il morisco osserva il manoscritto, scoppia a ridere e gli riferisce quello che sta leggendo: «Dulcinea del Toboso, tante volte menzionata in questa storia, dicono che ebbe nel salare porci miglior mano di qualunque altra donna della Mancia». Per comprendere il senso della battuta il lettore deve sapere due cose: che Dulcinea è la chimerica donna amata da don Chisciotte e che El Toboso era una località famosa per il numero di moriscos che vi abitavano, i quali con ogni probabilità (malgrado l’apparente conversione) non dovevano vedere di buon occhio i maiali.
Il traduttore rivela poi a Cervantes che il manoscritto è la storia di don Chisciotte dellaMancia, scritta da un certo Cide Hamete Benengeli, «storico arabo». Al settimo cielo, Cervantes invita il moro a casa sua, dove questi, in cambio di due arrobas di uva passa e due fanegas di grano, gli traduce l’opera in castigliano (allora come oggi, purtroppo, i traduttori erano pagati una miseria). Il lavoro impegna ilmorisco per sei settimane: il libro che il lettore ha tra le mani è il felice risultato delle sue fatiche. Che cos’è successo? A dispetto della censura ufficiale, a dispetto delle restrizioni imposte dall’Inquisizione e dalle leggi di pulizia etnica, il romanzo riconosce la presenza delle culture proibite come qualcosa di vivo e fertile. Con un sorprendente gioco di prestigio, Cervantes riesce a presentare il suo libro come l’opera di un autore esotico e al tempo stesso dell’Altro ostracizzato, ovvero di colui che un tempo era spagnolo e ora è un moro in esilio. Decine di traduzioni fecero seguito al successo del romanzo in Spagna, e rapidamente ilDon Chisciotte divenne uno dei libri più popolari al mondo. Quello che col tempo sarebbe stato considerato il capolavoro emblematico della Spagna, il simbolo riconosciuto della sua cultura, venne letto ovunque come una creazione araba, l’“invenzione”, per così dire, di un popolo condannato a vivere fuori dai confini del paese.
Non che ilDon Chisciotte sia libero da pregiudizi riguardo agli arabi, anzi. I personaggi di Cervantes condividono il sentire nazionale nei confronti dei mori e più volte ricorrono agli stereotipi negativi, anche solo per dare voce alle opinioni del presunto lettore. «Se alla presente [storia] si può muovere una qualche obiezione relativa alla veridicità, non potrà essere altra che l’aver avuto come autore un arabo, perché è caratteristica assai propria di quella gente l’essere bugiardi», scrive Cervantes a difesa della propria finzione letteraria, cautelandosi contro ogni dubbio riguardo a quello che racconta. Ma al tempo stesso vi è nell’opera un profondo riconoscimento di ciò che rappresentava per la Spagna la perdita di una parte importante di un’identità quasi millenaria.
Nel 1615, sei anni dopo la firma del decreto che condannava all’esilio imoriscos spagnoli, Cervantes dà alle stampe la seconda parte delle avventure di don Chisciotte. Nel cinquantaquattresimo capitolo presenta al lettore un ex compaesano di Sancio che porta il significativo nome di Ricote, l’ultima regione da cui imoriscos erano partiti per l’esilio. Ricote, tornato in Spagna travestito da pellegrino per recuperare il tesoro che ha lasciato sepolto al paese, racconta a Sancio che lui e i suoi compagni non sono stati ben accolti in Nordafrica.
«Ovunque siamo», aggiunge, «piangiamo per la Spagna: alla fin fine, vi siamo nati ed è la nostra patria naturale». Ricote è stato cacciato dalla sua terra. La descrizione del suo esilio, e di quello della sua famiglia, la nostalgia che prova per la patria perduta e i suoi argomenti contro l’ingiustizia subita colpiscono molto il lettore di oggi, al quale i mezzi di comunicazione danno giornalmente notizia di espulsioni e sofferenze analoghe.
Ma Cervantes non offre mai una visione unilaterale dei suoi personaggi e Ricote ha tutta l’ambiguità dell’emarginato convinto che le colpe che gli vengono attribuite giustifichino la sua condizione di vittima. In modo commovente, il personaggio esprime la sua adesione all’ingiusta disposizione regia: imoriscos , riconosce, costituiscono effettivamente una minaccia per la Spagna cristiana: «E mi forzava a credere a questa verità l’essere a conoscenza dei piani vili e dissennati dei nostri, tali che mi sembra proprio che fu un’ispirazione divina a muovere Sua Maestà a porre in atto una misura così severa, non già perché fossimo tutti colpevoli, ché vi erano anche cristiani veri, ma questi erano così pochi che non potevano opporsi a quelli che non lo erano e non era buona cosa allevare una serpe nel seno, tenendosi i nemici in casa. Alla fine, con ragione, fummo condannati all’esilio, castigo fiacco e soave, secondo alcuni, ma, per noi, il più terribile che avrebbero potuto mai infliggerci».
Malgrado queste giustificazioni, sia a Sancio che al lettore rimane la sensazione di quanto fosse “terribile” quel castigo. Ricote è parte della Spagna, sembra dire Cervantes, e per poter essere veramente noi stessi dobbiamo accettare come parte di noi quello che abbiamo cacciato e marchiato come vile. Per Cervantes, quelli che vediamo come stranieri siamo semplicemente noi stessi condannati all’esilio.