Il Palazzo delle Esposizioni ospita, fino al 28 gennaio, un omaggio speciale al fotografo britannico, classe 1935, Don McCullin, e già il fatto che McCullin sia stato uno dei protagonisti indiscussi della storia del fotogiornalismo mondiale (orgogliosamente gli organizzatori parlano della più grande antologica mai allestita in Italia) spiegherebbe il consiglio di vederla. Ma ciò che rende la visita quasi necessaria è il suo essere un’esperienza dello sguardo così intensa e toccante da impedire di uscirne almeno colpiti, se non turbati.

Quest’affermazione potrebbe sembrare strana, dal momento che la galassia dell’interazione digitale ci ha abituati ad attingere da un serbatoio praticamente infinito la nostra razione quotidiana di stimoli visivi, che traggono la loro forza proprio dal cinico e isterico mescolamento delle dimensioni che ci costringono a vivere. Basta una scrollata verso il basso e dal nostro smartphone accediamo in tempo reale a un mondo fatto a immagine in cui commozione, seduzioni, scandali e gossip stanno tutti insieme, pronti a richiederci un’attenzione indistinta.

Che cosa, dunque, rende ancora l’esperienza di una mostra qualcosa di diverso e, nel caso della mostra romana di McCullin, qualcosa di necessario? Nel primo caso la risposta potrebbe essere che la mostra è un dispositivo critico, una messa in scena meditata e progettata per proporre un messaggio, o almeno per fornire un contenuto, che regga da solo anche grazie a una coerenza interna e a una omogeneità strutturale. Una volta usciti, si spera, non saremo indifferenti ma potremo sentirci diversi, auspicabilmente più informati, più colti, più stimolati, oppure più delusi, più contrariati, più annoiati. Almeno, per quel breve intervallo della visita, non ci saremo lasciati passivamente condurre dalla casualità del nostro algoritmo profilato e avremo tentato di seguire il ragionamento di un curatore e la poetica di un artista.

Homeless Irishman, East End, London, Great Britain, 1969

Nello specifico, invece, della mostra su McCullin, si potrebbe pensare che, in fondo, le sue immagini sono molto note, le abbiamo già viste. E se non abbiamo visto le sue abbiamo però negli occhi le fotografie (e i film) che ci hanno raccontato gli orrori del Vietnam, la catastrofe della Cambogia, i terribili Troubles nell’Irlanda del Nord, l’erezione del muro che divise la città di Berlino (raggiunta da McCullin con tutti i soldi che aveva, 42 sterline, e con la Rolleicord e la Pentax appresso), la fame dell’India, il colera del Bangladesh… e poi la disperazione della Nigeria, dell’Uganda, del Congo.

Eppure, nonostante i nostri occhi si siano già poggiati sulle fotografie di McCullin (nei libri, nei cataloghi e nelle riviste) o su immagini che raccontano luoghi e vicende simili, nonostante la fotografia incorniciata e appesa a un muro ci possa apparire per un attimo come archeologica e statica, quelle sei stanze che raccontano – a cura di Simon Baker, in stretta collaborazione con lo stesso McCullin, e con Tim Jefferies – la vita e il lavoro di questo fotoreporter eccezionale, sono un emozionante viaggio nel cuore delle tenebre, citazione che proprio lui ha usato per una sua pubblicazione del 1980.

Un rigoroso bianco e nero domina gli ambienti della mostra, riecheggiando la cifra stilistica delle fotografie, e ognuna delle sei stanze è dominata nella parete di fondo dall’ingrandimento di un’immagine iconica, tra cui il ritratto della sua banda di quartiere, i Guvnors, con gli abiti della domenica nel londinese Finsbury Park nel 1958, reportage con cui iniziò la mitica collaborazione con «The Observer», o il famoso Miliziano turco esce dalla porta laterale di un cinema, il fortunato scatto che riassume la sua copertura della guerra civile a Cipro nel 1964. O ancora l’epica dei Giovani cattolici fuggono dai gas lacrimogeni a Londonderry nel 1971.

Nelle pareti laterali si snodano invece le tappe fondamentali di un’avventura che fa tremare i polsi al pensiero di ciò che Don McCullin ha visto e ha vissuto (compresi una prigionia e un ferimento presso i Kmer rossi, un arresto in Uganda e diverse espulsioni). Difficile sostenere lo sguardo dei provocatori close up: il mefistofelico senzatetto irlandese (Aldgate, East End, London 1973) e il marine traumatizzato in attesa di essere evacuato (Hué, Vietnam del Sud, febbraio 1968).

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Don McCullin, la guerra è una pazziaNelle sue dichiarazioni, molte delle quali accompagnano le foto in mostra (oltre a teche con passaporti, pass da fotogiornalista, riviste storiche, macchine ed elmetto), McCullin ha spiegato di avere sentito il bisogno di fotografare per dare voce a chi non ne avrebbe avuta, di raccontare l’orrore del mondo perché non venisse dimenticato, di rendere giustizia a chi era stato oltraggiato. La sua empatia con i vinti la attribuisce alla sua nascita, povera e ignorante, alla sensazione di essere già stato messo da parte dal destino: «nelle mie fotografie sto sempre dalla parte dei meno privilegiati, perché è da lì che vengo anch’io».

Di certo, non avrebbe pensato di diventare un fotografo, meno che meno un fotografo famoso. Sa anche molto bene che a un fotografo può essere attribuito il cinismo di chi continua a lavorare cercando la sensazione e l’immagine perfetta mentre tutto attorno brucia. E alla fine, pur sapendo che anche per lui i rischi sono enormi e la responsabilità di testimoniare gli orrori altrettanto, il senso di colpa diventa insopportabile.

Così, dalla metà degli anni ottanta circa, il paesaggio comincia a diventare un soggetto dominante: quello delle antiche rovine e dei monumenti delle grandi capitali del passato, così come quello della sua Inghilterra e dei dintorni del Somerset dove vive. Ma anche questa parte di produzione, presente nelle ultime sale della mostra, dice bene di come non ci si possa liberare facilmente di quello che si è vissuto in modo così intenso. Il Vietnam, la Cambogia, i quartieri poveri dell’East End, il Biafra, l’Iraq, il Libano sono ritratti con la stessa pasta dei paesaggi senza presenza umana di Baalbeck, di Palmira e degli orizzonti vicino a casa. Una pasta densa e scura, sporca, fuligginosa, caravaggesca dice lui, che sembra essere intrisa nella trama delle stampe fotografiche. Un cupo sentore che è il comune denominatore di tutta la sua produzione.

Perché anche quando passeggia nei dintorni di casa e sente il vento tra le foglie d’erba, ha detto McCullin, gli sembra di essere sulle strade di An Loc in Vietnam, e avvertire il rumore dei mortai da 106 mm che gli romba nelle orecchie. «Con i fantasmi McCullin continua a dormire e continuerà a dormirci insieme tutta la vita», ha scritto Ferdinando Scianna (e Sleeping with Ghosts si intitola la sua autobiografia).

Ecco perché, tornando alla domanda del perché visitarla, questa mostra non è solamente un capitolo importante della storia della fotografia e del lavoro di Don McCullin in particolare. È perché aggirandoci nelle stanze sembra anche a noi di sentire il rumore dei mortai, gli elicotteri che ci sorvolano assordandoci, le urla delle persone attorno che scappano, l’odore del napalm. Ci sembra che il marine ci stia guardando, ci sembra di essere in Friedrichstrasse a guardare il muro che si alza, dentro le case cipriote dopo la mattanza, davanti ai miseri legni che scaldano i senzatetto ad Aldgate, nelle tende dei lebbrosari del Golfo del Bengala, ma anche di fronte all’inquietante silenzio delle antiche rovine, severe e altrettanto inquietanti vestigia mute e deserte.

Ma questo è ciò che rende potente la magia della fotografia: lo stabilirsi di una relazione partecipativa tra il soggetto e chi guarda, come se quelle stampe riprendessero vita e, riemergendo dal passato, ci colpissero di nuovo, con la stessa ferocia con cui gli eventi colpirono McCullin, fotografo incredibilmente dotato della capacità di evitare la retorica e di guardare in faccia il mondo.