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Facciamo ora dialogare Anna Foa e Liliana Segre, valorizzando il nucleo delle loro posizioni contrapposte. Entrambe donne ebree, entrambe legate alla memoria della Shoah, entrambe profondamente colpite dalla guerra in corso a Gaza. Ma divergono sull’uso di una parola: genocidio.
DIALOGO IMMAGINARIO
Anna Foa:
Liliana, ho esitato a lungo prima di usare quella parola, ma oggi non posso più evitarla. La distruzione sistematica di Gaza, la morte di migliaia di civili, l’attacco a chi aspetta aiuti umanitari… non è forse genocidio questo? Grossman ha avuto il coraggio di dirlo. È tempo che anche noi, che abbiamo una storia dolorosa alle spalle, lo riconosciamo.
Liliana Segre:
Capisco la tua angoscia, Anna. La condivido. Ma usare la parola genocidio in modo così diretto rischia di trasformare la memoria in un’arma. Non possiamo ignorare l’uso distorto che se ne fa, spesso con sottofondo antisemita. Non dobbiamo farci ingabbiare in un linguaggio vendicativo, che non aiuta a capire ma solo a schierarsi con odio.
Anna Foa:
Eppure il dolore non può più restare muto. Parlare è un atto di responsabilità. È Israele stesso che si sta suicidando, anche moralmente. L’ideologia messianica, il suprematismo, il rifiuto dell’etica stanno divorando il Paese. Dire genocidio non è odio: è disperazione, è coscienza storica.
Liliana Segre:
Ma se genocidio diventa un grido di rivalsa, uno slogan per negare tutta la complessità della storia, allora non serve. Non serve a fermare la guerra, né a tutelare i palestinesi. E contribuisce, fuori da Israele, a un clima che fa riemergere l’antisemitismo sotto nuove forme. Anche Grossman lo teme: teme che si vada troppo oltre, che si perda lucidità.
Anna Foa:
Lucidità non significa restare in silenzio. Non significa lasciar correre. Non significa accettare un linguaggio asettico davanti alla strage. Tu stessa parli di fanatici al governo, di azioni squadristiche. Non è tempo di chiamare le cose con il loro nome?
Liliana Segre:
È tempo di fermare tutto questo, sì. Ma senza fare confusione tra giustizia e vendetta. Senza usare il nostro passato per colpire il presente in modo ideologico. Le parole possono unire o distruggere. “Genocidio”, oggi, è diventata parola-martello, non parola-bussola.
CONCLUSIONE
Entrambe le posizioni esprimono una sofferenza autentica e una preoccupazione morale profonda. La differenza non sta tanto nella condanna delle azioni del governo israeliano – su cui entrambe concordano – quanto nell’uso politico, simbolico e morale del termine “genocidio”.
- Foa e Grossman spingono per un riconoscimento del baratro già in corso, anche a costo di affrontare parole difficili.
- Segre invita a non cedere al linguaggio assoluto, per non alimentare odio e semplificazioni pericolose, specie in Europa.
La posizione più plausibile?
Dipende dallo scopo.
- Se si guarda alla giustizia storica e alla responsabilità immediata, la posizione di Foa è più radicale, ma anche più urgente.
- Se si guarda al contesto internazionale e alla lotta contro l’antisemitismo, l’allarme di Segre è fondamentale: ci ricorda che le parole hanno effetti che vanno ben oltre la denuncia.
Una sintesi possibile?
Usare parole forti, ma con rigore. Chiamare i crimini col loro nome, ma senza perdere il senso delle proporzioni e delle conseguenze. Il termine genocidio non deve essere né censurato né banalizzato.
Serve una giustizia che parli con precisione, senza rinunciare al dolore.