Salvatore Rossi
Il Bollettino Economico pubblicato ieri dalla Banca centrale europea dava notizia di un’indagine campionaria recente sulla “vulnerabilità” delle imprese dell’area dell’euro, da cui emerge fra l’altro che in Italia e in Germania la quota di imprese vulnerabili è particolarmente alta. Come leggere questa notizia? Quanto dobbiamo allarmarci?
Intanto precisiamo bene di che cosa stiamo parlando. L’indagine in questione – chiamata Indagine sull’Accesso delle Imprese alla Finanza (Safe nell’acronimo inglese) – viene condotta due volte l’anno dalla Bce e dalla Commissione europea presso un campione di circa 11.500 imprese dell’area dell’euro. A queste viene chiesto di dichiarare fatturato, utili, spesa per interessi e quota del debito sul totale delle attività negli ultimi sei mesi. Se un’impresa segnala una diminuzione dei primi due parametri e un aumento degli altri due viene considerata vulnerabile. È un’indagine campionaria, non una rilevazione statistica universale, ma è seria, condotta su un campione numeroso e chiede alle imprese dati oggettivi, non opinioni. Quindi i suoi risultati sono attendibili e significativi. La definizione di vulnerabilità adoperata, che non è solo finanziaria ma anche industriale, consente di ricavare indicazioni abbastanza precise sulla probabilità che in futuro un’impresa finisca per fallire.
I risultati esposti ieri dalla Bce fanno riferimento ai sei mesi centrali dell’anno scorso. Italia e Germania risultano avere entrambe una quota di imprese vulnerabili intorno al 9 per cento, contro un 7 per cento di Francia e Spagna. La Spagna è l’unico dei quattro grandi Paesi dell’area a mostrare una riduzione di quest’indicatore rispetto ai sei mesi precedenti (quelli a cavallo fra il 2022 e il 2023), Italia, Germania e Francia ne registrano un deciso aumento. Il negativo risultato tedesco e quello positivo spagnolo non stupiscono: l’economia tedesca è in recessione, quella spagnola marcia a velocità sostenuta. C’è da chiedersi come mai la quota di imprese italiane vulnerabili aumenti nella stessa misura che in Germania, visto che l’economia italiana l’anno scorso è andata meglio di quella tedesca.
Premesso che si tratta di segnali e non della fine del mondo, temo che la loro spiegazione vada al di là degli eventi congiunturali, e tocchi problemi di vecchia data dell’economia italiana. Negli ultimi vent’anni questa è rimasta quasi stagnante, crescendo di un miserando 0,3 per cento l’anno in media. Germania, Francia e Spagna, che pure non hanno brillato in questi anni quanto a dinamismo economico, rispetto sia al loro stesso passato sia ad altri paesi fuori dell’Europa, hanno fatto quattro volte meglio di noi, con tassi annui medi di crescita dell’1,2 per cento e più. Il gracile risultato italiano riflette da presso l’andamento della produttività oraria del lavoro, che nello stesso periodo è cresciuta in Italia solo di poco più dello 0,2 per cento l’anno in media, mentre è salita dallo 0,6 all’1 per cento l’anno negli altri tre Paesi.
Come mai questa inferiorità italiana nell’efficienza con cui si producono beni e servizi? L’efficienza produttiva, così come misurata dalla produttività oraria, consta di tre componenti: l’abilità dei lavoratori, frutto dell’educazione e dell’istruzione che hanno ricevuto e accumulato in loro stessi (capitale umano); l’efficacia degli strumenti, dei mezzi fisici messi a loro disposizione (capitale fisico); la capacità di coloro che organizzano il lavoro, manager o imprenditori che siano (capitale organizzativo). Il divario maggiore a sfavore dell’Italia si osserva nella terza componente, l’accumulazione di capitale organizzativo, detta anche “produttività totale dei fattori”.
Non che le prime due componenti siano irrilevanti: la prima chiama in causa il sistema educativo e la propensione dei cittadini a dedicare risorse alle conoscenze proprie e dei propri figli; la seconda la possibilità e la voglia di investire sia delle imprese private sia delle organizzazioni pubbliche. Ma la terza agisce da tempo come una zavorra sulla crescita della produttività del lavoro e al tempo stesso è sfuggente, difficile da catturare. Ha a che fare con la tecnologia che si sceglie, con l’inventiva commerciale, con la funzionalità e l’intelligenza delle prassi aziendali e con tante altre qualità ancora.
A spiegare il fatto che tutto questo sia meno presente nelle imprese italiane che in quelle tedesche, francesi o spagnole concorre probabilmente la più ridotta scala dimensionale del nostro sistema di imprese, che ne limita e vincola le scelte tecnologiche e organizzative. Imprese meno efficienti e più piccole, o meno efficienti proprio perché più piccole, possono soffrire, se le condizioni del loro mercato e dell’economia in generale non sono brillanti, cali di fatturato e di utili, un aumento dei debiti e delle connesse spese per interessi, cioè esattamente ciò che ne definisce la vulnerabilità.