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21 Giugno 2022Il Presidente ha scambiato il potere per il consenso mostrando la sua debolezza. Grazie alla Nupes di Mélenchon il sistema politico-elettorale francese esce rimodellato, ma le alleanze sociali necessarie a un cambiamento profondo sono ancora da ricomporre
Adue mesi dal suo inizio si è conclusa la lunga parentesi elettorale francese, cominciata il 10 aprile scorso con il primo turno dell’elezione presidenziale, proseguita il 24 aprile con il secondo turno, e ripresa il 12 giugno con il primo turno delle legislative e definitivamente chiusa con il secondo turno delle legislative, ieri, in una Francia afflitta da un’ondata di calore estrema.
Da questo ciclo di elezioni il sistema politico-elettorale francese esce profondamente rimodellato, con una verticale del potere, quella che da vent’anni allineava la volontà dell’Eliseo a quella dell’Assemblea nazionale, finalmente spezzata. Questa volta nulla ha potuto l’ingegneria costituzionale semi-presidenzialista del generale de Gaulle, contro il bisogno di ingovernabilità emerso dal corpo elettorale francese al termine di cinque anni di una presidenza Macron arrogante e antisociale. Solo cinque anni fa la meccanica semi-presidenzialista aveva raggiunto il culmine della sua potenza: portare al vertice dello Stato un giovane tecnocrate ambizioso, il volto nuovo del vecchio centro neoliberale. E laMacronie, questo arcipelago effimero di yuppie urbanizzati e notabili rurali, tecnocrati e pensionati, élite ciniche e classi medie speranzose, è caduto vittima dell’illusione che esso stesso aveva fabbricato: scambiare il potere per il consenso. Così, dopo cinque anni la promessa della stabilità drogata dalla meccanica elettoral-costituzionale si è infranta e ha mostrato tutta la sua impotenza. Il 2022 è la nemesi del 1958.
La testa di Macron non cadrà, perché l’investitura diretta, seppure ottenuta con il ricatto piuttosto che con il consenso, rende la sua figura inviolabile. Il parlamento non lo ha eletto e non può sfiduciarlo: al contrario è lui che ha il potere di scioglierlo e convocare nuove elezioni. Eppure, neanche questa prerogativa può più nascondere la sua debolezza politica e la sua impopolarità. Anzi, il fatto stesso di dover agitare lo scioglimento dell’Assemblea nazionale è il segno della sua fragilità. Il programma della Macronie è tutto da riscrivere o, meglio, tutto da elaborare perché agli elettori e alle elettrici è stato presentato un pot-pourri ideologico-programmatico. Ecco un altro grande paradosso della presidenza che verrà: grandi poteri ma nessun programma, nessuna bussola. L’afonia di Macron durante questa campagna elettorale era allo stesso tempo tattica elettorale e ultimo rimedio di chi ha esaurito le scorte ideologiche e si limita a sparare a salve.
Un’afonia completamente diversa da quella di un’altra protagonista, Marine Le Pen, che non si è spesa molto in questa campagna elettorale. Inizialmente quasi con l’obiettivo di ridimensionarne la portata, presa in contropiede dalla strategia del «terzo turno» di Jean-Luc Mélenchon. Ma soprattutto perché una campagna discreta avrebbe scongiurato l’anatema della diabolizzazione, il «fronte repubblicano anti-Rassemblement National». Viaggiando a fari spenti nella notte Marine Le Pen ha portato quasi trecento dei suoi candidati al secondo turno (erano stati 110 nel 2017 e 61 nel 2012) mettendo gli avversari di fronte al fatto compiuto e ancora una volta ribadendo la sua autorità a destra, schiacciando l’effimero Zemmour e, in famiglia, surclassando i risultati del padre Jean-Marie.
Tabella 1 – I candidati qualificati al secondo turno delle legislative 2022
Parti | 1er | 2e | 3e | Qualifiés |
NUPES | 261 | 190 | 20 | 471 |
Ensemble | 151 | 272 | 21 | 448 |
Rassemblement national | 161 | 105 | 30 | 296 |
Les Républicains | 0 | 1 | 0 | 1 |
Reconquête | 0 | 1 | 0 | 1 |
Tabella 2 – Tasso di astensione elettorale alle elezioni legislative nella Quinta Repubblica
NB. Nel 2022 la percentuale è salita al 52,5 e al 53,7% rispettivamente al primo e al secondo turno. Una crescita inferiore al ciclo elettorale precedente.
Questo non vuol dire che fosse tutto calcolato da parte di Marine Le Pen. All’indomani del dibattito con Macron e del secondo turno delle presidenziali, la candidata dell’estrema destra era uscita con le ossa rotte dal duello, le sue ambizioni ancora frustrate da una performance dialettica poco convincente e dalle ambiguità del suo programma, un misto di retorica da destra sociale, utopismo segregazionista e isolazionista e misure economiche thatcheriane. Ciononostante, la sua candidatura aveva superato il 40 percento e il suo ruolo di forza «antisistema» consolidato. Una volta chiusa la competizione presidenziale, i due finalisti si apprestavano ad affrontare le legislative con agio e inerzia, ognuno con i rispettivi ruoli: monarchia presidenziale per Macron, opposizione ineleggibile per Le Pen. Un duopolio destinato a confiscare la politica per i successivi cinque anni. Queste poche certezze sono state spazzate via dal ritorno in scena di Jean-Luc Mélenchon che nel giro di ventiquattro ore ha cambiato la sceneggiatura delle presidenziali.
Il terzo incomodo, che da solo aveva sfiorato l’impresa di portare la sinistra radicale alla sfida finale con Macron, non si è dato per vinto e all’indomani del secondo turno ha imposto la sua candidatura a primo ministro (assolutamente infondata costituzionalmente ma efficace sul piano comunicativo), unico modo per ricordare che i giochi non erano chiusi, che le legislative non erano una formalità, e che c’erano ancora i margini per rovesciare i destini elettorali e portare in parlamento una maggioranza diversa da quella che il potere si attendeva. Di qui la fuga di Macron e Le Pen dalla sfida, la scelta dell’afonia, espediente per mettere la sordina all’eloquenza di un Jean-Luc Mélenchon stanco e volitivo e di una sinistra ringalluzzita dalla ritrovata e inaspettata unità.
La scommessa di Mélenchon ha funzionato: la Macronie ha fatto naufragio e ha perso la maggioranza all’Assemblea. Alcuni dei suoi esponenti di punta non sono stati rieletti e fra questi c’erano dei ministri o delle ministre fresche di nomina, che dovranno dimettersi. Il sapore della vittoria è però amaro. Nonostante l’attivismo di Mélenchon, la Nouvelle Union Populaire Ecologique et Sociale (Nupes) non è riuscita a mobilitare sufficientemente l’elettorato per far eleggere tutti i deputati che sperava. La volontà di revocare a Macron i pieni poteri ha preso anche la via dell’estrema destra.
Solo che qui si insinua un altro paradosso della dinamica elettorale fra i due turni. In 55 dei 62 collegi dove al secondo turno si affrontavano un candidato dell’Union Populaire contro uno del Rassemblement National (Rn) di Le Pen, il candidato macronista eliminato si è rifiutato di schierarsi contro il candidato di estrema destra, seguendo la linea imposta dai vertici del partito presidenziale, contribuendo così all’elezione di una buona parte degli 89 deputati neo-fascisti.
Appena due mesi fa il partito marconista, tallonato dall’estrema destra, invocava il sostegno della sinistra per sconfiggere Le Pen, sulla base dei «valori condivisi» delle forze democratiche. Ma quando si è trattato di sostenere candidati di sinistra ai ballottaggi contro esponenti dell’estrema destra, i vertici della Macronie si sono rimangiati tutto e hanno cinicamente scelto di scommettere su un buon risultato dell’estrema destra per ridimensionare quello della sinistra unita.
Stando allo studio dei flussi, buona parte dell’elettorato macronista, così come di quello gollista, ha seguito le indicazioni, preferendo implicitamente una vittoria del Rn a una di sinistra. Qualcosa di diverso è invece successo fra gli elettori del Rn di fronte a un ballottaggio Sinistra-Macronie: un terzo di questi elettori avrebbe votato per il candidato di sinistra, nonostante la consegna dei vertici del Rn di non andare a votare.
E così dopo il paradosso politico-istituzionale di un potere senza programma, abbiamo quello socio-elettorale simile a un Mexican stand-off: elettori di sinistra, dipinti come anti-sistema, che preferiscono comunque votare per candidati moderati piuttosto che per esponenti del Rn; elettori moderati che rispettano la consegna di rimanere equidistanti fra sinistra e neo-fascisti; ed elettori di candidati del Rn eliminati al primo turno che al secondo turno votano candidati di sinistra contro esponenti macronisti. Come nel caso eclatante del secondo collegio delle Alpi-Alta Provenza, dove Cristophe Castaner, ex socialista convertito al macronismo, dal 2018 al 2020 ministro dell’interno di Macron (alla guida della macchina repressiva contro i Gilet Gialli e per questo soprannominato «l’eborgneur», «il cavaocchi»), è stato eliminato al ballottaggio contro il candidato dell’Union populaire che ha vinto in rimonta probabilmente grazie ai voti degli elettori del Rn.
La complessità di questi sommovimenti elettorali sembra occultata da una narrazione mediatica dominante che pone in risalto il risultato dell’estrema destra senza spiegarne le ragioni. È già stata rimossa l’attitudine ambigua della Macronie durante i ballottaggi e non si parla del progressivo allineamento dell’agenda presidenziale su un discorso di estrema destra: sui dossier dell’immigrazione, della laicità, della sicurezza e della gestione delle forze di polizia. La connivenza ideologica ed elettorale con l’estrema destra da parte del partito macronista è una tappa ulteriore all’interno di una traiettoria inquietante di chiusura dello spazio pubblico e di radicalizzazione a destra delle classi dominanti, ma anche di parte delle classi medie e popolari.
Sconfessata elettoralmente, priva a livello parlamentare di una maggioranza e ostile, come dimostrato, a qualsiasi opzione di apertura a sinistra, la Macronie dovrà appoggiarsi ai circa sessanta deputati gollisti (Les Republicains) eletti alla sua destra. Les Republicains sono una forza che ha già attraversato un processo di radicalizzazione a destra negli ultimi anni e così, dall’opposizione, Marine Le Pen potrà imporre un’agenda a destra senza però doversi logorare al governo.
All’assemblea il numero di eletti del Rn supera quello dei deputati della France Insoumise (72). Quindi il gruppo del Rn, guidato da Le Pen, sarà il principale gruppo di opposizione in parlamento, a meno che i 142 deputati della Nupes (in seno alla quale sono stati eletti i 72 deputati della France Insoumise, i 26 socialisti, i 23 ecologisti, i 12 comunisti e i restanti appartenente ad altre sigle della coalizione) non decidano di costituire un gruppo unico all’assemblea. Questo permetterebbe di limitare l’influenza delle varie destre e di far pesare i 6,5 milioni ottenuti al secondo turno (in crescita rispetto ai 5,8 del primo turno e molti di più dei 3,5 raccolti dal Rassembement National). Allo stesso tempo la coalizione di sinistra riposa su una leadership carismatica, quella di Mélenchon, ma poco amata dai partner della coalizione. Socialisti, comunisti ed ecologisti hanno attaccato la France Insoumise lungo tutta la campagna elettorale per le presidenziali, assumendo in alcuni casi posizioni succubi a quelle dell’estrema destra. Sconfessati alle urne e fortemente indeboliti, hanno accettato la coalizione come un matrimonio di convenienza, o meglio, di sopravvivenza. La France Insoumise da parte sua, dopo lo straordinario risultato delle presidenziali non aveva altra scelta che promuovere la tanto detestata unione a sinistra per non vanificare il risultato elettorale, consolidare il suo primato a sinistra e sperare di rompere il duopolio estremo centro-estrema destra.
Le crepe della coalizione si stanno già manifestando, con il segretario comunista Fabien Roussel a giocare il ruolo di guastatore e i vecchi capi socialisti pronti a vendicare l’umiliazione di un accordo che sconfessa il social-liberalismo. La France Insoumise non è mai stata così forte ed è riuscita a promuovere un rinnovamento importante del ceto politico a sinistra, ma allo stesso tempo è fortemente dipendente dalla leadership dirompente di Mélenchon. È stata la sua figura tribunizia coniugata a una piattaforma di rottura che coniuga temi sociali, ecologici e un discorso anticapitalista capace di attirare consenso che ha permesso di contrapporre un polo radical-populista al dupolio Macron-Le Pen. Ma ancora non è chiaro chi potrà prenderne il testimone e come potrà sviluppare una strategia di cambiamento radicale, tenere a bada gli opportunismi degli alleati, resistere a un’embrionale egemonia nazional-liberista e contendere spazi di consenso agli avversari e all’astensione.
Il sistema politico-elettorale francese esce rimodellato da questo ciclo elettorale ma il sistema di alleanze sociali è ancora tutto da ricomporre, esige tempi e ritmi diversi e sarà sottoposto nei prossimi tempi alle contingenze della guerra guerreggiata, economica e climatica.
*Francesco Massimo scrive per Jacobin Italia. Attualmente vive in Francia dove fa ricerca e insegna a Sciences Po, Parigi.