Scomodo sabotatore delle neoavanguardie, sulla scia di Duchamp. Vicino a Boetti e a Manzoni Le sue opere sono adesso al Macro di Roma diCarlo Alberto Bucci
di Carlo Alberto Bucci
La prima opera esposta nell’antologica su Emilio Prini al Macro è del 1966, un anno prima della partecipazione dell’autore, alla Bertesca di Genova, alla mostra d’esordio dell’Arte povera. L’ultima è del 2016, l’anno della morte, dopo un ventennio che l’artista aveva sostanzialmente smesso di partecipare al circo del contemporaneo. Ma non di pensare a come metterlo in crisi. E alla berlina. Inizia quindi con lo smalto su legno di (In)Picabia(genio dadaista) l’esposizione che Luca Lo Pinto, direttore del Museo d’arte contemporanea comunale, ha allestito a Roma rispettando fedelmente (e in collaborazione con l’Archivio Prini di Genova) la natura eretica e anarchica dell’artista nato a Brisino di Stresa nel 1943, autore di una sistematica demitizzazione del ruolo dell’artista e di demolizione dell’aura dell’opera. La mostra …E Prini (aperta fino al 31 marzo, ingresso gratuito) si conclude, dicevamo, con Coloridel 2016. Si tratta di cornici Picoglass contenenti cartoncini colorati «come omaggio ai 13 artisti dell’Arte Povera »: industriale ed economico il frame, ma anche il supporto che assume l’incarico di rappresentare i compagni di strada, gli artisti passati dal rigore poverista della neoavanguardia all’opulenza del mercato dell’arte. Il dispositivo espositivo (ideato con passione e precisione da Lo Pinto che tuttavia non firma ufficialmente la mostra) suggerisce un percorso cronologico tradizionale, in senso orario, da sinistra a destra, con l’ultima, variopinta opera che si ricollega alla prima. Ma questa cavalcata nel mondo irriverente e affascinate dell’arte di Prini potremmo cominciarla dalla conclusione, dal 2016 dei suoi 73 anni. Per tornare indietro alle opere di mezzo secolo prima, quando, ventenne, Prini faceva misurazioni degli spazi della vita, rilevamenti fotografici di muri curvi, mappature del corpo. E anche il tasto rewindspinto sui 243 pezzi che raccontano per immagini la storia di questo iconoclasta dell’arte contemporanea, ci restituirebbe un percorso omogeneo e plausibile, interessante e ancheesteticamente esaltante. Non soltanto perché la poetica di Prini vive di una coerenza assoluta. Ma proprio in ragione del fatto che l’artista aveva organizzato sin dagli anni Sessanta la propria storicizzazione. E il curatore cita la mostra del 1995 a Strasburgo (Fermi in Dogana) in cui le misurazioni spaziali effettuate trent’anni prima diventano, in legno o ferro, «volumi architettonici che traducono l’idea del calco come dimensione del non rappresentato».
Nella grande sala del Macro non c’è soluzione di continuità tra le opere firmate e la documentazione, o tra gli appunti appesi alla parete e le installazioni di grande formato posteal centro dell’ambiente. Possiamo trovare cataloghi di esposizioni ormai epiche (come ilTeatro delle mostre alla Tartaruga, a Roma, nel 1968) ma anche pezzi unici come ilRitratto di Napoleone del 1974, realizzato battendo sulla macchina da scrivere soltanto i tasti della O e della virgola. E poi gli inviti eseguiti da Prini stesso per la personale di tre anni prima all’Attico di Roma, dal titoloMerce tipo standard. Ma anche leX Edizioni del 1986 in cui l’artista serializza i taccuini con gli appunti sul concetto di standardizzazione. Questo lavoro fu realizzato nel 1986 per non essere visto, Prini infatti fece in modo che né alla galleria Toselli di Milano né all’Aam, nella Capitale, il pubblico avesse facile accesso all’opera. Fino ad arrivare ad escludere i visitatori dalle mostre, spesso chiuse pochi giorni dopo la vernice.
Scomodo sabotatore delle neoavanguardie, recalcitrante a definizioni e formule come “concettuale”, Prini non si sentiva tuttavia una monade. Il suo lavoro entra nella scia di Duchamp e si ricollega a quello di Piero Manzoni, ma anche all’opera di Gino De Dominicis. Tra i protagonisti dell’Arte povera, il più vicino appare forse Alighiero Boetti. Ad esempio nei lavori in cui la forma dell’opera si esaurisce con lo scadere del tempo: i telegrammi spediti a distanza di anni da Boetti e, in Prini, l’opera che si completa alla fine delle decine di migliaia di scatti (stampati e impilati) che una macchina fotografica realizza prima di andare ko.
Foto ridatate e fotocopie firmate in un secondo momento come fosse un novello, vecchio de Chirico; cataloghi lasciati con le pagine in bianco e altri esposti come fossero (e sono) l’opera; titoli realizzati ripetendo tautologicamente la scheda del lavoro stesso: dietro le schermaglie dell’artista che punge e si nega, c’è il suo corpo stesso, spesso inquadrato di spalle o sulla nuca, che è poi la posizione di chi osserva. E quando mostra il viso, sovente capita che abbia il naso rosso del clown. Prini, “l’alieno” nel circo del contemporaneo. L’uomo che ha dato voce e forma al vuoto.