La grande crisi del 2008 era di natura prevalentemente finanziaria: scatenata dai titoli strutturati sui mutui e dall’eccessivo indebitamento, ha investito le banche e, in Europa, il debito pubblico. Pertanto è stata affrontata prevalentemente dalla Banche Centrali con strumenti finanziari innovativi, come quantitative easing, tassi di interessi nulli e negativi, acquisti diretti di obbligazioni corporate e finanziamenti sussidiati al sistema bancario.
La difficoltà, allora, era prevedere gli effetti a lungo termine della crisi; lo stesso vale oggi per quella che si sta profilando.
Per esempio, il Fondo Monetario Internazionale ha appena rivisto al ribasso, all’1 e allo 0,5 per cento, rispettivamente, la crescita per il 2022 di Usa ed Eurozona, dal 5,2 e 4,3 previsti un anno fa: non mi ricordo di revisioni di questa grandezza in così poco tempo.
Sempre un anno fa, tutte le Banche Centrali ritenevano che l’inflazione sarebbe stato un fenomeno transitorio, mentre oggi la crescita dei prezzi è la più alta degli ultimi 40 anni.
Questa crisi ha una natura in prevalenza reale, caratterizzata da alta inflazione, uno squilibrio tra domanda e offerta di beni e servizi, e dal caro energia, a sua volta indotto dal rischio geopolitico (guerra in Ucraina) e dai costi della transizione ambientale.
Se è molto difficile prevederne le conseguenze di lungo periodo, è tuttavia possibile sottolinearne alcuni aspetti che fanno temere un indebolimento dell’Europa rispetto agli altri blocchi.
POLITICHE FISCALI, NON MONETARIE
Il primo è che la natura della crisi impone di affrontarla con la politica fiscale, non con quella monetaria. Mentre l’Eurozona ha una politica monetaria unica, ma non una politica fiscale comune; e neppure energetica. Infatti, il programma comunitario per il sostegno delle fasce deboli di fronte al caro energia procede a rilento, mentre il pacchetto fiscale tedesco da 200 miliardi – di fatto, un sussidio alle imprese locali – acuisce le difficoltà degli altri paesi. In altre parole, fino a qualche mese fa, contro questa crisi sono stati messi in campo gli strumenti e le politiche usati per risolvere la crisi precedente, pur essendo quella attuale di natura diversa.
Il secondo aspetto è geopolitico. L’uso da parte della Russia delle forniture energetiche come arma di pressione sull’Europa ha reso palese che la struttura dei rapporti economici internazionali che ha retto gli ultimi 30 anni è destinata a cambiare radicalmente.
Non è solo questione di gas e sanzioni: l’energia è diventata uno strumento di politica internazionale. Il price cap sulle forniture di greggio imposto dagli Usa dal prossimo dicembre (chiunque finanzi o assicuri un trasporto di greggio a prezzo superiore al cap è soggetto a sanzioni finanziarie) ha indotto l’Opec a guida saudita a tagliare per ritorsione la produzione di greggio, perché teme che l’arma politica usata oggi contro la Russia potrebbe domani diventare uno strumento di pressione contro qualsiasi Paese non democratico, come la stessa Arabia Saudita.
Una decisione in aperto conflitto con l’amministrazione americana, che vuole ridurre il prezzo dei carburanti e che ha risposto liberando una parte rilevante delle riserve strategiche.
Cina e India approfittano della rottura fra Russia ed Europa per aprire nuovi canali di approvvigionamento. Il gas LNG americano che andava in Asia viene destinato all’Europa che, per averlo, deve pagare di più; ma così aumenta anche il prezzo interno negli Usa, causando le proteste di consumatori e imprese.
E non è solo l’energia. La svolta imperialistica e autoritaria della Cina, con il predominio della Partito sull’economia di mercato, la soluzione militarista per Taiwan, le repressioni a Hong Kong, la ricerca dell’autonomia nelle tecnologie avanzate per l’industria bellica, mettono a rischio geopolitico l’industria elettronica occidentale, data l’importanza di Taiwan, ma anche le forniture di batterie, pannelli solari, pale eoliche, nonché i processi chimici e la tecnologia sottostanti, tutti settori dove dominano le aziende cinesi.
IN CERCA DI AUTONOMIA
Così gli Usa hanno intrapreso un massiccio programma di onshoring per riportare a casa da Taiwan la produzione di microprocessori, e proibendo al tempo stesso alle imprese americane la vendita di tecnologia avanzata alla Cina.
Nel campo delle rinnovabili, il governo americano ha varato massicci crediti di imposta per i produttori nazionali di pannelli solari, pale eoliche, batterie, elettrolizzatori, promosso la ricerca ed estrazione dei minerali utilizzati dalle rinnovabili, che oggi vengono prevalentemente importati.
In altre parole, si cerca l’autonomia nelle rinnovabili per affrancarsi dai rischi geopolitici, come a suo tempo con il fracking che ha sottratto gli Usa all’influenza dell’Opec, all’origine delle crisi petrolifere degli anni settanta e ottanta. E anche nel digitale, le strade di Cina e Stati Uniti si separano.
Una prima, chiara conseguenza di questa crisi è la tendenza alla creazione di due blocchi contrapposti, Cina e Usa, che vogliono essere indipendenti per tecnologia e approvvigionamenti di energia e materiali, ognuno alla ricerca di una propria area di influenza.
È evidente la tendenza a una riduzione della globalizzazione, su cui l’Europa, più degli altri blocchi, aveva costruito il proprio modello di sviluppo centrato sull’industria, grazie a energia a basso costo acquistata dalla Russia, semiconduttori, informatica e digitalizzazione fornite Usa e Asia, componenti e manufatti dalla Cina, materie prime dall’emisfero meridionale.
La globalizzazione è il sistema più efficiente di allocazione delle risorse perché sfrutta il principio dei vantaggi comparati: il lungo periodo di inflazione stabile intorno al 2 per cento degli ultimi decenni ne è la dimostrazione lampante. Ma espone ai costi e rischi della geopolitica.
La deglobalizzazione, riducendo l’efficienza, avrà dunque come conseguenza un’inflazione che alla lunga si assesterà a un livello più alto che in passato.
I GUAI PER L’EUROPA
Da questo processo, l’Europa rischia dunque di uscire gravemente indebolita, non solo per la mancanza di una politica fiscale ed energetica comune che farebbero superare più facilmente la crisi, ma per l’assenza di una strategia di onshoring, specialmente in campo energetico all’epicentro della crisi, ma anche nelle rinnovabili.
L’Europa appare come un sistema energetico insulare: l’Italia col gas algerino; la penisola iberica con solare e LNG, la Francia con il nucleare, la Germania con l’eolico, il gas algerino e LNG; Ungheria e altri paesi dell’est col petrolio russo.
I grandi progetti per connettere le reti non ci sono, o sono apertamente osteggiati, anche se – o forse proprio perché – distribuirebbero i benefici derivanti dai vantaggi relativi dei vari paesi.
Con molta miopia, in Europa si ostacola lo sviluppo del settore energetico locale, affermando che rallenterebbe la transizione ambientale, ma è vero il contrario: di energia fossile ci sarà comunque bisogno ancora per tanto tempo, ed è necessario comprimere il costo ingente dei rischi geopolitici, anche per liberare risorse pubbliche da utilizzare per accelerare sulle rinnovabili.
Così, prolungamento della vita delle centrali nucleari, fracking, sviluppo di giacimenti europei, carbon capture per la produzione dell’idrogeno, rimangono tabu.
Si è imposto un termine alla produzione di veicoli con motori a combustione interna senza avere ancora la capacità di produrre le batterie, i semiconduttori e i minerali necessari a costruirle in misura sufficiente.
Per tutte queste ragioni, l’Europa rischia di uscire indebolita dalla crisi. E i crescenti nazionalismi non fanno che aumentare questo rischio.