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26 Novembre 2022Addii Lo scrittore tedesco è scomparso a 93 anni: autore di versi e di pamphlet, di libri per ragazzi e di saggi, criticava (quasi) tutto senza smettere di sorridere
di Paolo Di Stefano
L’avanguardia era il suo mestiere, la poesia anche Da Hitler all’Europa del futuro, navigò il Novecento
Era il 1971 quando, presso Einaudi, uscì la storia della letteratura tedesca del maestro dei germanisti italiani, Ladislao Mittner. Nell’ultimo volume di quell’opera capitale, dedicato al dopoguerra, Hans Magnus Enzensberger occupava una notevole sezione, precedendo, tra le voci dello sperimentalismo del dopoguerra, Martin Walser, Uwe Johnson, Günter Grass e altri. Poco più che quarantenne, Enzensberger veniva presentato da Mittner come «il poeta tedesco più originale e vigoroso, ma anche il più lucido ed intransigente polemista degli ultimi dieci anni» e definito niente meno che «il Brecht della Bonn degli anni Sessanta». Forse con un velo di ironia, lo studioso italiano aggiungeva che il giovane poeta e saggista si divideva tra Germania e Norvegia: in patria s’impegnava a combattere la sua lotta contro «l’inumana “industria della coscienza”», nella sua casa sull’isolotto davanti ai fiordi si riposava in un contesto più semplice e autentico.
Enzensberger, morto giovedì 24 a 93 anni, era nato nel 1929 in una cittadina della Baviera, Kaufbeuren, aveva studiato Filosofia ad Amburgo e alla Sorbona, si era laureato sulle poesie di Clemens Brentano. Nel 1961 era stato inserito in un’importante antologia di nuovi poeti e già nel 1964 una sua raccolta venne pubblicata in Italia da Feltrinelli, grazie a Enrico Filippini, che segnalò a Franco Fortini i versi del giovane scrittore tedesco (Poesie per chi non legge poesia apparve nella collana poetica del Gruppo 63). Una corrispondenza epistolare tra i due (edita di recente da Quodlibet) testimonia le affinità più politiche che estetiche tra Fortini ed Enzensberger negli anni in cui l’uno traduceva le poesie dell’altro: in realtà Enzensberger era troppo vicino alle avanguardie per piacere senza riserve all’amico Fortini, avversario giurato di ogni sperimentalismo. Sempre in quei primi anni Sessanta, ancora grazie alla mediazione di Filippini, Enzensberger tradusse infatti per la casa editrice Suhrkamp (di cui era redattore) le poesie di Edoardo Sanguineti, in un perfetto e più coerente scambio tra le due nuove avanguardie europee, da una parte il Gruppo 47 tedesco, di cui Enzenberger era capofila, dall’altra il Gruppo 63 italiano.
A quel tempo Enzensberger viaggiava sulla cresta dell’onda della sinistra tedesca, essendo precocissimo autore di saggi critici sul neocapitalismo, sul crescente militarismo occidentale, sulle storture del «miracolo economico», sulla società dei consumi che «consuma i consumatori» (rendendoli strumenti docili), sullo sfruttamento della coscienza oltre che del lavoro, sul rapporto perverso tra politici e crimine. Le poesie appartenevano a quel clima ma con un tratto del tutto peculiare rivendicato sin dagli esordi: in contrasto con i formalismi contemporanei, Enzensberger dichiarava la sua adesione ai contenuti e alla facoltà comunicativa del linguaggio, sulle orme del modello brechtiano. Nessuna chiusura e un’attenzione costante al lettore, a cui spesso il poeta si rivolge direttamente con un tono insieme affabile e drammatico: «non leggere odi, figlio mio, leggi gli orari ferroviari:/ sono più esatti, spiega le carte nautiche,/ prima che sia troppo tardi. sii vigile, non cantare./ verrà il giorno in cui riaffiggeranno liste di nomi/ sulla porta e ai dissenzienti tracceranno sul petto/ un segno distintivo». È sempre ben presente, nella voce di Enzensberger, l’incubo di quel che è stato e il presentimento di ciò che potrebbe essere, ma con toni colloquiali e mai enfatici.
Poeta, autore di saggi, di pamphlet, di romanzi, di inchieste storiche, di drammi teatrali, scrittore per l’infanzia, Enzensberger è stato anche attivo come operatore culturale (in uno dei suoi ultimi libri, Tumulto, del 2014, ricostruì in forma diaristica i viaggi, gli incontri, i fermenti, le delusioni politiche e private degli anni Sessanta). A lui si devono due riviste antitetiche tra loro nello spirito e distanti nel tempo: «Kursbuch», periodico radicale simile ai nostri «Quaderni piacentini», e «Transatlantik», vicino nello spirito al «Diario» di Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli, una volta esauriti gli entusiasmi e gli eccessi della politica. Tra le tante idee che hanno animato la vita di Enzensberger, raccontate in un libro memorialistico del 2011, I miei flop preferiti (ironicamente destinato alle generazioni future), c’è anche un progetto italiano risalente ai primi anni Sessanta: una rivista internazionale, intitolata «Gulliver» e immaginata da tre gruppi di scrittori (italiani, francesi e tedeschi), uniti dal desiderio di promuovere una nuova letteratura e un movimento critico d’ampio respiro. Dell’iniziativa rimane un interessante scambio epistolare a cui parteciparono con Enzensberger, che doveva coordinare l’equipe tedesca, Elio Vittorini, Italo Calvino, Francesco Leonetti, Maurice Blanchot, Ingeborg Bachmann, Pier Paolo Pasolini, Martin Walser, Jean Starobinski e altri (i materiali furono raccolti nel 2003 in un numero della rivista «Riga»).
Amico di Franco Fortini e di Edoardo Sanguineti, animatore di riviste, tessitore di rapporti. E con «Il mago dei numeri» volle spingere i giovani verso la matematica
Pur conservando un’impronta di impegno morale e di disincanto, Enzensberger rimane essenzialmente uno sperimentatore di generi. Nel 1975 esce con Mausoleum, una raccolta di 37 ballate, in versi e in prosa, «tratte dalla storia del progresso» e dedicate ad altrettanti personaggi storici della scienza e della filosofia: dall’orologiaio di Padova, il trecentesco Giovanni de’ Dondi, all’inventore dell’elettroshock, un altro italiano, Ugo Cerletti, passando per Campanella, Leibniz, Linneo, Spallanzani… Ne viene fuori un bilancio alquanto disperante dei tentativi umani di dominare la natura, spesso improntati al delirio di onnipotenza e alla mostruosa paranoia.
Giustamente, il nome di Enzensberger, ai più, evoca immediatamente un poemetto-capolavoro del 1978 in 33 canti, che si inserisce nel solco del pessimismo radicale verso la modernità: La fine del Titanic affronta quello che Cesare Cases, nella prefazione all’edizione Einaudi, definisce «l’episodio che dai contemporanei venne sentito come una prova generale della fine del mondo in atto unico», ovvero la celebre collisione e il conseguente naufragio del 13 maggio 1912. È sempre Cases a cogliere lo spirito di quel componimento drammatico, risalendo all’epoca di «Kursbuch», quando Enzensberger scrisse che se ci sembra che la fine del mondo non sia ancora arrivata è perché in realtà non arriva una volta sola e per tutti ma si avvicina «a rate, a pezzi e bocconi, in tempi e luoghi diversi», annunciata dall’ombra lunga della follia che soverchia ampiamente ogni progresso. In definitiva il quadro è freddo, desolante, senza speranze: «Rottami, frammenti di frasi,/ cassette vuote, grosse buste commerciali/ bruni, fradici, rosicchiati dal sale,/ estraggo dai flutti dei versi,/ dai cupi, caldi flutti/ del mar dei Caraibi,/ dove pullulano gli squali,/ versi esplosi, salvagenti,/ vorticosi souvenirs». Più in là, con la vecchiaia, la «musica» di Enzensberger, in versi e in prosa, avrebbe assunto una saggezza più lieve e irridente, una specie di «allegretto» che al fondo si rivela non meno disperato («La mattina le strade son gremite/ d’individui che, senz’estrarre coltelli,/ vanno avanti e indietro in tutta calma/ per acquistare latte e rapanelli./ Come nella pace più totale./ È un gran bel vedere»).
Infine c’è un altro Enzensberger, lo scrittore per ragazzi: una sua favola, scritta a quattro mani con Irene Dische, è l’incantevole Esterhazy. Storia di un coniglio, dove non riconosciamo più il fustigatore feroce della politica. Ma soprattutto il libro che nessuno si sarebbe aspettato è arrivato nel 1997 con Il mago dei numeri, un bellissimo romanzetto illustrato, «un libro da leggere prima di addormentarsi dedicato a chi ha paura dei numeri»: la sorpresa è che il vero mago è il suo autore, capace di trasformarsi in Andersen e in Lewis Carroll per avvicinare i suoi giovani lettori alla matematica (la traduzione del rimpianto Enrico Ganni merita una menzione di riconoscenza). Dopo averci prefigurato tanti incubi, Enzensberger ha aperto la strada al sogno, dove i numeri non sono più quelli dei conti economici e dei folli calcoli degli scienziati, ma un gioco affascinante e fine a sé stesso.