L’ultima battaglia: l’egemonia sociale
1 Maggio 2023Hegel, il rivoluzionario del pensiero sulla soglia di un’epoca
1 Maggio 2023La pandemia
di Maurizio Ferraris
All’inizio di ottobre 2019 ero a Wuhan per una conferenza. Di lì a poco ci sarebbero stati i giochi mondiali militari che, si dice, sono stati il principale veicolo di diffusione del virus.
Ma ovviamente non sospettavo nulla, e come la stragrande maggioranza degli abitanti del Pianeta mi immaginavo un futuro che sarebbe stato la normale prosecuzione del passato. Altri, pochi, erano stati più lungimiranti, e la possibilità di una pandemia era al centro della riflessione e della previsione dei medici. Ma l’umanità nel suo insieme non si aspettava nulla di simile.
Tanto è vero che quando, all’inizio del marzo 2020, ci fu il primo lockdown, molti pensarono che sarebbe durato una settimana. Pareva inconcepibile che il mondo andasse avanti con l’umanità chiusa in casa per più di qualche giorno. Da allora sono passati tre anni e qualche mese, e proprio in questi giorni l’Organizzazione Mondiale della Sanità si è detta fiduciosa sulla fine dello stato pandemico entro il 2023.
Re Peste sembra, dunque, debellato, dopo una quarantina di mesi, divisi in varie fasi confuse, alterne, e soprattutto diversissime a seconda dei Paesi (giacché la pandemia è stata universale, mentre le reazioni sono state locali, e già questo ci suggerisce un punto su cui riflettere). Ovviamente, ci si continuerà ad ammalare di Covid come di tantissime altre malattie, ma il virus non ha più la forza originaria e, proprio per questo e soprattutto, abbiamo altre cose a cui pensare.
Uno sguardo retrospettivo su questi tre anni abbondanti (pressappoco la durata della Prima guerra mondiale per l’Italia) porta con sé la distanza, il distacco, e persino la pietà. Non sappiamo per quanti anni sopravviveranno nelle nostre città le indicazioni per le distanze di sicurezza, proprio come a lungo, nel dopoguerra, rimasero le frecce per i rifugi antiaerei. Ancora troviamo le raccomandazioni a indossare i guanti, che nei primissimi tempi della pandemia apparivano come fondamentali. Il che ci dimostra quanto l’evento avesse colto di sorpresa l’umanità, e quanto poco sapessimo del virus.
La più grande vittima
è stata la vita intima, la convi-venza in coppia o in famiglia, così come le prospettive esistenziali dei singoli
È proprio questo non sapere che ha scatenato la reazione antitetica, quella del complottismo, ossia dell’idea di sapere tutto, di aver capito che il virus era in realtà uno stratagemma per far passare un colpo di stato, che con il pretesto del virus imponeva lo stato di emergenza e la dittatura sanitaria. Sebbene questo timore sia stato alimentato — in qualche caso — in modo strumentale, la sua origine è molto più autentica e ingenua: consisteva, semplicemente, nel tentativo di ricondurre a cause umane, e dunque note, l’evento ignoto e irrazionale (nel senso che i virus non possiedono strategie) che si stava facendo avanti.
L’altro volto di questo desiderio di rassicurazione è stato il raccogliersi intorno alla scienza. E questo tanto negli anticomplottisti quanto nei complottisti, perché su entrambi i fronti la guerra veniva combattuta in nome della scienza, magari con la contrapposizione tra una scienza ufficiale, e dunque asservita al potere, e una scienza alternativa, che smascherava le manovre della prima.
In questo quadro, una tradizionale protagonista delle pestilenze, la religione, è apparsa come una semplice comprimaria. Limitandosi al cattolicesimo, non ci sono state processioni per invocare la clemenza divina e le messe sono state sospese perché il distanziamento sociale costituiva anche per le autorità religiose un precetto incontestabile. E il Papa non ha abbozzato alcun tentativo di teodicea (ossia non ha cercato di giustificare Dio che avrebbe permesso il male), ma, d’accordo del resto con la linea del suo pontificato, ha visto nella pandemia la conseguenza dell’atteggiamento irrispettoso degli umani nei confronti della natura.
Per completare il quadro, il virus è stato una conferma della fine della globalizzazione, ossia di un sogno a lungo sognato ma che, come sappiamo bene, ormai non convince più nessuno. Fenomeno globale per eccellenza, la pandemia ha avuto delle risposte altamente differenziate a seconda dei grandi blocchi in cui è diviso il potere mondiale. Ogni blocco ha avuto il suo vaccino, le sue strategie, le sue norme.
Il virus è stato anche una conferma della fine della globalizza-zione, un sogno a lungo sognato ma che non convince più nessuno
E si è riconfermata anche in questa materia il ruolo politico dell’Europa come blocco fra i blocchi. Il 31 gennaio 2020, mentre l’umanità era alle prese con la prima ondata della pandemia, ha avuto luogo l’uscita ufficiale del Regno Unito dall’Unione Europea, e nessuno se ne è accorto (ce ne accorgiamo adesso nei controlli aeroportuali, ma è un altro discorso). L’Europa, che sembrava agonizzante all’epoca del referendum sulla Brexit nel 2016, ha esercitato una azione politica crescente, proprio perché si trattava di elaborare una strategia comune a livello continentale. La compattezza dell’Europa nella crisi ucraina è una conferma di questo rinnovato protagonismo imposto dalla necessità di una risposta comune ai quattro cavalieri dell’Apocalisse.
Sin qui, tuttavia, i cambiamenti legati alla sfera pubblica e storica. Il vero e grande cambiamento è avvenuto però nella vita dei singoli, e non parlo tanto del lavoro, l’ambito in cui le trasformazioni sono apparse più clamorose, ma delle relazioni interpersonali, che in moltissimi casi sono state trasformate, spesso spezzate, proprio da una alterazione della vita che non era stata messa in conto. Per non parlare dell’enorme long Covid psicologico che ha investito i bambini e gli adolescenti alle prese con due anni di insegnamento a distanza. Non troppo sorprendentemente, questi effetti sulle vite delle persone non erano minimamente inclusi tra le minacce del Covid, giacché la salute fisica e l’economia sembravano i due veri punti critici. Ma a ben vedere la più grande vittima è stata la vita intima, le relazioni, la convivenza in coppia o in famiglia, così come le prospettive esistenziali dei singoli in quanto collegati con la loro vita relazionale. È lì, su questo intreccio di microstorie apparentemente marginali rispetto al corso del mondo, che la pandemia ha lasciato la sua impronta più forte, e un indolenzimento che, proprio come nei lividi, fa più male il giorno dopo.